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10/10

Hunger regia di Steve McQueen

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

1981, Irlanda del Nord. Da quattro anni i detenuti paramilitari del carcere di Maze sostengono le proteste “del sapone” e “dello sporco”, con l’obiettivo di ottenere dal governo britannico lo status di prigionieri politici. Il 1 maggio Bobby Sands (Michael Fassbender), leader della rivolta, inaugura lo sciopero della fame che lo porterà alla morte.

Sull’onda del successo di critica e pubblico registrato da Shame – caso cinematografico della stagione 2011-2012 – arriva nelle sale italiane Hunger, capolavoro d’esordio del britannico Steve McQueen. Con un trattamento analogo a quello riservato a Bronson di Nicolas Winding Refn, l’opera prima di McQueen fa la sua comparsa sugli schermi nostrani a quattro anni di distanza dalla proiezione in anteprima a Cannes 2008 che gli valse la Golden Camera.

Inaugurazione magistrale del sodalizio tra l’artista-cineasta londinese e Michael Fassbender (immenso nella sua abilità metamorfica), Hunger pone le basi di un cinema che troverà in Shame ulteriore consolidamento; un cinema che lavora sul corpo e con il corpo, scendendo nelle profondità viscerali della carne per indagare le “questioni dell’anima”, e interseca le coordinate di uno dei momenti più gravi della storia britannica sfruttando l’exemplum del singolo per cogliere la portata universale delle sue scelte.

Unica soluzione possibile per la messa in atto di una rivoluzione giusta, la fame del titolo originale – come la “vergogna” di Shame – è solo la punta più estrema di una pellicola straordinariamente potente, che innesta sui bisogni primordiali dell’individuo la portata di una riflessione assoluta, sciolta dai vincoli della ridondanza e della verbosità e in grado di affermarsi nella cornice insostenibile dell’horror vacui, dove il silenzio gravido di attesa accompagna la costruzione di un’architettura visiva pressoché perfetta. Uno stile, quello di McQueen, che coglie l’essenza più piena del fare cinema, rifiutando la convenzionalità degli stilemi narrativi e discorsivi per affermare la forza di una voce unica.

Formatosi nel territorio ambiguo dell’arte contemporanea – tra serialità post-warholiane e scarti fotografici del reale – McQueen trasferisce nel cinema il gusto per le strutturazioni minimaliste e i luoghi metafisici, agendo per sottrazione e contrasto, secondo una retorica dell’antitesi che alle geometrie quasi chirurgiche degli spazi chiusi (la casa, la cella, gli infiniti corridoi) contrappone il caos della violenza animalesca e della degradazione umana colta nel suo farsi.

“Le idee che ho le invento soffrendole io stesso, passo passo, io scrivo soltanto ciò che ho sofferto punto per punto in tutto il mio corpo, quello che ho scritto l’ho sempre trovato attraverso tormenti dell’anima e del corpo”, affermava Antonin Artaud, e il “cinema della crudeltà” di McQueen sembra sottoscriverne pienamente il pensiero. Le sevizie fisiche e psicologiche subite (e ricercate) dai carcerati di Maze si riflettono sui corpi e sulla loro psiche come su quella dei loro aguzzini (straordinario lo split-screen improprio del giovane poliziotto in lacrime), assumendo la forma scioccante dell’ispezione corporale, dell’abuso, della violazione spietata dei confini  più elementari.

Laddove in Shame era la concretezza sterile dell’atto sessuale e del corpo sessuato ad occupare il quadro, in Hunger è piuttosto la consistenza materica delle secrezioni umane e il volontario decadimento della fisiologia organica a provocare l’obiettivo. L’animale erotico diventa allora  semplicemente animale, involucro dapprima pulsante e infine svuotato, prosciugato, freddo: “parente della spazzatura nel secchio”, avrebbe detto Isherwood. Eppure sono solo venti i minuti nei quali il disfacimento fisico di Bobby Sands – e di Fassbender in sua vece – si compie, toccando l’apice di un film sul quale domina l’inaspettato, e la piega pur annunciata degli eventi è tutt’altro che prevedibile.

La strada insolita della focalizzazione multipla è quella percorsa dalla sceneggiatura di Enda Walsh e dello stesso McQueen, che alla convenzionalità della struttura “monadica” preferisce la triade cristologica (la guardia, il giovane prigioniero, il leader), e alla naturale presentazione del protagonista oppone un’entrata in scena “per svelamento”, ritardata e affatto annunciata: uno scalciare ferino di nervi e sangue in cui è quasi impossibile ritrovare il volto conosciuto di Fassbender.

La macchina da presa, naturale estensione dell’occhio così come del braccio del regista, si muove a costruire un trittico della violenza muta, prediligendo inquadrature stabili, movimenti prolungati senza interruzione e una logica del suono diegetico accuratamente pianificata. Nell’economia di un’opera fondata sull’essenza pura del cinema – il mostrare - McQueen dimostra infatti di saper utilizzare l’elemento sonoro con rara consapevolezza. Words are very unnecessary, cantava Dave Gahan nel 1990, e Hunger non potrebbe dimostrarlo meglio.

L’urlo bestiale, profondo, primordiale, usato come valvola di sfogo, sostituisce l’articolazione verbale, mentre il brusio indistinto della collettività sovrasta l’omelia cattolica, in una riduzione blasfema della parola del Signore a puro diversivo, materiale utile solo ad essere inalato. La parola “vera” interviene allora, come in Shame, soltanto quando non se ne può fare a meno, quando lo spettacolo della natura nella sua forma climatica (la neve) o animale (la mosca) non è più sufficiente a colmare il panico dell’isolamento o, ancora, quando il dialogo si rende necessario a chiarire una convinzione suicida, omicida ma semplicemente inevitabile.

Si spiega così, fuori da ogni compiaciuto virtuosismo, il memorabile piano-sequenza di diciotto minuti che occupa la parte centrale del film: un’inquadratura fissa, un confronto dialettico inconsueto (perché del tutto privo di campo e controcampo) tra due personaggi speculari ma forgiati da esperienze distinte; una conversazione apparentemente superficiale che evolve infine in dichiarazione d’intenti irremovibile, volontaria auto-condanna a morte. Vita e libertà quali emblemi del potere di convinzione sostengono il racconto di Bobby, la sua parabola pagana, così lucida, così vivida da non richiedere il supporto delle immagini per radicarsi nella mente dello spettatore ed esplicitarne la metafora: l’agnello di Dio, il puledro sacrificale annegato per il bene di tutti, in un atto di eutanasia benevola senza pretese di martirio.

La pellicola di McQueen si consuma così: soffrendo, asciugandosi all’inverosimile, come il corpo su cui concentra e sfoga il proprio sguardo. E non basta un lenzuolo bianco a coprirne le tracce, a far dimenticare la forza di un’opera che è forse la più riuscita manifestazione artistica del regista londinese. Un film sublime, che riesce a dire tutto senza quasi parlare. Silenzioso e spiazzante, come una piuma che attraversa l’inquadratura.

V Voti

Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 8 voti.

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alexmn (ha votato 9 questo film) alle 13:53 del 6 maggio 2012 ha scritto:

il cinema di mcqueen è davvero riassumbile nella frase di artaud che hai mirabilmente citato. si percepisce che tutto quanto è rappresentato l'ha sentito/sofferto/vissuto sulla propria pelle...il suo cinema (mi) colpisce proprio perchè è viscerale e mai banale, anche quando (vedi shame) la tematica è insidiosa.

non saprei dire se preferisco hunger o shame, per me sono in modi differenti due film stupendi e allo stesso modo potenti. fassbender poi ha una fisicità esplosiva anche nella recitazione minimal-sottrattiva dei film di mcqueen. devo dire che l'avevo adorato anche in fish tank di andrea arnold...e sono curioso di vedere come andrà con prometheus.

testo sublime perchè fa percepire con forza e comprendere quella visceralità di cui accennavo prima. cosa si può chiedere di più a una recensione che sa trasmettere le stesse emozioni del film di cui sta parlando!

hayleystark, autore, alle 14:21 del 6 maggio 2012 ha scritto:

Non potrei essere piú felice, soprattutto quando certe parole provengono da un recensore di cui ammiro spassionatamente gli scritti