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8/10

Tournee regia di Mathieu Amalric

Commedia
recensione di Fulvia Massimi

Ex produttore televisivo fallito e novello impresario teatrale, Joachim Zand si imbarca in un viaggio on the (rail)road nella Francia costiera in compagnia delle cinque star americane del  “suo” show neo-burlesque. La tournée del titolo sarà l’occasione per riflettere sulla sua vita e sull’odio sopito che ex-amici ed amanti covano per lui senza una ragione specifica.

Folgorato dal romanzo della scrittrice francese Colette L’envers du music-hall, Mathieu Amalric ne porta sul grande schermo la carica vitale e scandalosa, aggiornandone i contenuti a quasi un secolo dalla pubblicazione e trasformandoli nel film di una vita: un viaggio disperato nel corpo e nell’anima del (neo)burlesque, premiato a Cannes per la miglior regia.

Dimenticate Burlesque di Steve Antin: l’arte dello spogliarello (sebbene non si tratti soltanto di questo) non ha nulla di patinato. Scegliendo la via del realismo a tratti quasi documentaristico (complice la fotografia multiforme di Cristophe Beaucarne), Amalric racconta il dietro (e davanti) le quinte di uno show itinerante in cui il corpo, orgogliosamente esibito in tutta la sua imperfezione, è assoluto protagonista.

Con uno sguardo che ricorda quello di Aronofsky, Tournée si fa elogio di una corporeità bandita dai moderni canoni estetici eppure venerata in bui teatri di provincia, dove il pubblico adorante rende omaggio alle divinità di uno spettacolo in cui “le donne si esibiscono per le donne, così l’uomo non può tenerle sotto controllo”. Eppure, dietro la femminilità ostentata, i lustrini, le ciglia finte e il trucco pesante, il corpo è carne e dolore, occhi pesti e cuori infranti, e la solitudine di ritrovarsi in una stanza vuota davanti a uno specchio, come una talpa nella sua tana.

Amalric interpreta se stesso, rendendosi complice di una finzione cinematografica che sembra sempre sul punto di sfociare nel reale, tale è la spontaneità e la complicità con cui le cinque attrici americane (Mimi Le Meaux, Kitten on the Keys, Dirty Martini, Julie Atlas Muz, Evie Lovelle) calcano tanto il palcoscenico teatrale che quello della vita. Principe ranocchio in mezzo a cinque regine, senza più radici né casa, Joachim ne trova una nella fretta e nell’ansia del tour, nel “turbinio di voci starnazzanti” che dà “l’illusione di vivere a mille”, e allo stesso tempo nella ricerca del silenzio, di una musica azzerata che nessuno, tranne la cassiera di una stazione di servizio, vorrà abbassare per lui.

L’amore è “ritrovarsi a lato di un palco dopo soli due passi di danza” e finire in un albergo sul mare, rossetto impastato sulle labbra e lacrime silenziose sul volto, perché la felicità non si può più contenere, perché a forza di viaggiare si è dimenticata la sensazione di fermarsi e riprendere fiato. Have Love, Will Travel dei The Black Keys (qui nella versione dei The Sonics) apre e chiude il film, unendo i due elementi chiave di una pellicola la cui bellezza è difficile da rendere a parole: amare e viaggiare, ritrovare un Paese da cui si era fuggiti e ritrovare se stessi, accettando infine la sconfitta, i lividi e tutte le proprie colpe.

“Fare un film può essere terribilmente doloroso” confessa Amalric, costretto a ritagliare, in più di tre ore di girato, una durata adatta agli odierni standard di sopportazione spettatoriale. Perché “è impossibile includere nel film tutta la vita che avrei voluto” quando quella stessa vita si preferisce assumerla in pillole, mai tutta insieme, per non rischiare di restarne schiacciati.

Guardando Tournée è impossibile non avvertire l’amore travolgente di Amalric per il mondo rutilante colto dalla macchina da presa: il fascino immobile e vibrante della provincia francese, la magia di uno show irriverente, struggente, esagerato – seppur meno protagonista di quanto la tag-line italiana lasci supporre – unita a quella delle sue interpreti, caotiche, sensuali, voltive ma mai volgari, nascoste dietro nomi d’arte ma sempre se stesse. Anche quando il loro corpo, il loro stile, il loro magnifico senso dell’umorismo, la vitalità, sono messi in discussione. Joachim (e Amalric con lui) dichiara il proprio amore ad un microfono solitario e la sua confessione suona come una richiesta di perdono. Per essere meschino e crudele (il dialogo con Mimi nel corridoio dell’hotel è uno dei momenti più intensi del film) ma anche profondamente e irrimediabilmente umano.

Vanificata, in parte, dall’atroce doppiaggio italiano, la sceneggiatura di Amalric (scritta a dieci mani con Philippe Di Folco, Thomas Guillou, Marcelo Novais TelesRaphaëlle Valbrune) si esprime magnificamente senza dire quasi nulla, senza spiegare. L’assenza di una motivazione non pesa quanto i silenzi della Coppola in Somewhere poiché ad essa non si accompagna la vacuità di significato dell’esistenza. E poiché, in fondo, non c’è nulla che debba essere spiegato. Quella di Amalric è un’opera tattile, epidermica, fatta di sensazioni ed emozioni, è lo sguardo che coglie brandelli di vita – dell’ “avventura di una vita” – mostrando la difficoltà di andare avanti senza lasciarsi inghiottire dal crollo delle proprie fondamenta.

Potrebbe essere l’ennesima apologia di un uomo senza qualità, masticato e sputato senza compassione dallo show-business e deciso a tornare vincitore in patria sfruttando la gallina dalle uova d’oro: le premesse ci sono tutte. Eppure Amalric va oltre, incarnando il lacerante senso di esclusione di un uomo che ha allontanato e continua ad allontanare tutti da sé, crogiolandosi nell’umiliazione, negandosi (quasi) ogni occasione di felicità.

Attore tra i più talentuosi della sua generazione ma poco più che esordiente dietro la macchina da presa, Amalric ha il coraggio di realizzare un film che probabilmente nessuno avrebbe voluto finanziare e che in pochi vorranno vedere, e di calcare il tappeto rosso di Cannes circondato dalla vitalità strabordante del suo cast straordinario, fregandosene dell’etichetta e del decorum e ottenendo il giusto riconoscimento del suo appassionato (e appassionante) lavoro. “Perché essere così fuori luogo se non ne viene niente alla fine?”

 

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