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8/10

Miss Violence regia di Alexandros Avranas

Drammatico
recensione di Fabio Secchi Frau

   Dopo il suicidio di una bambina di undici anni nel giorno del suo compleanno, si segue la vita della sua famiglia dopo il lutto. Quella che apparentemente sembra essere un nucleo familiare così simile a tanti, si rivela essere lentamente un inferno di violenze psicologiche, fisiche e sessuali i cui fili sono ben stretti intorno alle dita del nonno, oscuro capofamiglia.

   Quello che si è presentato come uno dei film più scandalosi alla 70° Mostra del Cinema di Venezia, facendo però ottenere un Leone d’Argento al suo regista (Alexander Avranas) e una Coppa Volpi al suo attore protagonista (Themis Panou), è la descrizione comune di quella che psicologicamente viene definita come «dipendenza affettiva». In questo caso, però, non è solo una donna succube di un uomo in posizione dominante, consapevole di esercitare un potere ma, tutto un piccolo nucleo familiare a maggioranza femminile. Il tutto senza una configurazione opposta, se non in alcuni piccoli e squallidi casi di ribellione che nel film sono quasi rari.

  È il personaggio interpretato da Themis Panou, quell’uomo sospeso fra una rigida moralità e un’altrettanta sfrenata immoralità, a essere il perno di una narrazione che, con crudezza di regia e sceneggiatura (nonché totale assenza di qualsivoglia commento musicale), descrive tutti i mezzi che l’uomo adopera per manipolare i membri più deboli della sua famiglia.

  La violenza psicologica, la denigrazione, le minacce, i ricatti morali toccano il loro apice in ogni singola scena di questa film, aggiungendosi alla violenza fisica e sessuale. L’odio di Avranas per questo tipo di borghesia apparentemente pulita e perbenista, per queste famiglie così fintamente serene, appare particolarmente feroce e non ha difetti.

  Conflittuali, lacerati da violenze e dolori, tutti i personaggi sembrano non avere nel loro futuro alcuna redenzione, perché persino le vittime rimangono inascoltate dalla società e, quindi, incapaci della benché minima opportunità di liberarsi dal male.

  Si tratta, come qualche critico cinematografico greco ha sottolineato, di una famiglia che non è una famiglia nel senso affettivo del termine. È una mera collusione perversa e sadomasochista che, forte del carattere di ognuno dei membri uniti dalla storia, dimostra come certe persone siano complementari anche nel conflitto fra carnefice e preda.

  Superba la fotografia di Olympia Mytilinaiou che, contribuendo a ingrigire l’atmosfera, ha il compito quasi di conformare le persone affascinante come in una malia dall’immagine del capofamiglia ma, anche di rappresentare cromaticamente le loro patologie psichiatriche.

   Insomma, un film intelligente, estremo, “disumanizzato” e per stomaci forti.

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