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7/10

Love Is All You Need regia di Susanne Bier

Romance
recensione di Fulvia Massimi

Astrid e Patrick stanno per sposarsi in Italia. I rispettivi genitori, la parrucchiera Ida (Trine Dyrholm) e l’imprenditore Philip (Pierce Brosnan), si imbattono l’una nell’altro all’aeroporto di Copenaghen. Nonostante le premesse poco incoraggianti, la trasferta italiana farà sbocciare l’amore.

Stanca di occuparsi dei drammi esistenziali di ragazzini violenti (In un mondo migliore), mariti gelosi (Non desiderare la donna d’altri) e vedove affrante (Noi due sconosciuti), e fresca dell’Oscar al miglior film straniero conquistato nel 2011, la danese Susanne Bier si (e ci) concede una ventata d’aria fresca, dirigendo una commedia romantica spensierata e rassicurante nella sua prevedibilità.

Considerate le sorti delle pellicole precedenti, non stupisce che il titolo originale della sua opera ultima, Den skaldede frisør (“La parrucchiera calva”), subisca la consueta storpiatura non solo da parte dei traduttori italiani, ma anche di quelli stranieri, qui impegnati in un’operazione re-interpretativa particolarmente priva di senso. Con la canzone dei Beatles da cui il titolo internazionale (Love is all you need) è tratto, il film della Bier ha infatti ben poco a che spartire. Meglio allora chiamarlo That’s Amore, visto l’uso reiterato che del brano di Dean Martin viene fatto sia a livello sonoro che iconografico.

La dichiarazione d’amore anni ’50 di Harry Warren e Jack Brooks per il capoluogo partenopeo è infatti il refrain musicale di un film che vorrebbe a sua volta celebrare il bel vivere all’italiana, ma che conferma invece l’imbarazzante e triste tendenza alla stereotipia caricaturale già intrapresa dal Woody Allen di To Rome With Love. Un’atmosfera alla “vino, limoni e mandolino”, insomma, sulla quale si stagliano le vicende di una chiassosa famiglia allargata e di un matrimonio che proprio non s’ha da fare.

Di tutti i cliché che albergano nella sceneggiatura della Bier (affiancata, come sempre, dal collega Anders Thomas Jensen) quello della coppia di sposini al settimo cielo è probabilmente l’unico mancante. Le insicurezze dei due giovani fidanzati, protagonisti solo in apparenza, costituiscono piuttosto lo sfondo sul quale collocare la nascita di una relazione sentimentale matura tra due soggetti che non potrebbero essere più diversi. La rilettura in chiave contemporanea della screwball comedy anni ’30-’40 si pone come fonte d’ispirazione privilegiata per lo script della Bier, che nel contrasto tra l’accigliato Philip (un Brosnan sempre identico a se stesso e dunque perfettamente in parte) e la solare Ida (la Dyrholm, vero catalizzatore del film) risolve le dinamiche tipiche di uno dei generi canonici del classicismo hollywoodiano.

In parole povere, “gli opposti si attraggono” e, oggi come sessant’anni fa, il detto sembra rimanere valido. L’antipatia iniziale tra Philip, novello Cary Grant, e Ida, esuberante e volitiva come una Katharine Hepburn moderna, non può che tramutarsi in amore. “Le femmine sono pericolose, i maschi inutili”, afferma Philip, servendosi della metafora della cocciniglia per tracciare uno schematico ritratto del ruolo dei sessi (come a dire che “gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere”), ma le sue parole non trovano conferma nella piega degli eventi, tutti indirizzati verso un lieto fine appena venato di malinconia e annunciato prima ancora dei titoli di testa.

Si potrebbe facilmente sventrare l’opera della Bier, puntando il dito contro l’eccessivo accumulo di banalità e convenzioni che la rom-com porta inevitabilmente con sé. Ma non è difficile intuire la presenza di un’estrema consapevolezza, dietro la patina artificiosa che ricopre il film e che ne costituisce il senso ultimo. È nel monologo conclusivo di Astrid, un’invettiva contro ipocrisie e apparenze, una strenua e disperata difesa della sincerità, che le intenzioni della regista vengono infine svelate. E allora perfino la consueta rappresentazione di un’Italia da cartolina, dove i maschi sono tanto virili ma non quanto sembrano (gallismo italico, addio!), appare meno gratuita e irritante.

Il Golfo di Napoli, esaltato dalla fotografia calda e densa di cromatismi di Morten Søborg, ospita nel proprio abbraccio un pout pourri di lingue e costumi, favorendo la conciliazione tra la spontaneità a tratti surreale della vecchia Europa e le ritrosie del nuovo continente, e offrendosi come spazio di rinascita per due personaggi in crisi esistenziale (o coniugale). Il dramma della separazione, della morte, della malattia, viene spinto dietro le quinte di una narrazione che non aspira certo all’originalità ma piuttosto ad instillare nello spettatore un benefico torpore, un sentimento di benessere e di serenità nato dalla constatazione che, una volta tanto e solo nel mondo utopico dello schermo cinematografico, tutto vada per il verso giusto.

La vita vera non è quella raccontata dalla Bier, dove ci si ama per sempre non importa né come né quanto, e basta prendersi una vacanza dal mondo per ritrovare se stessi e la voglia di ricominciare. Ma che c’è di male nel farsi cullare ogni tanto dall’illusione cinematografica e lasciare che il buonumore abbia il sopravvento sulla razionalità?

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