T Trailer

R Recensione

7/10

Attack the Block - Invasione Aliena regia di Joe Cornish

Horror
recensione di Fulvia Massimi

È una notte movimentata nel Sud di Londra: petardi dappertutto e baby gang pronte a rapinare chiunque per qualche sterlina. Moses, Pest, Jerome, Dennis e Biggz, cinque giovanissimi criminali, si trovano a fronteggiare una minaccia più grande di loro: un’ondata di alieni letteralmente piovuta dal cielo. Nella loro lotta per la salvezza del quartiere coinvolgeranno un’infermiera neo-laureata e una coppia di cannaioli strafatti.

Attingere a piene mani dal proprio vissuto autobiografico sembra essere una pratica congeniale alla new wave dei giovani cineasti emergenti. Se il Durkin de La fuga di Martha fondava la sua opera prima sul timore infantile per i gruppi omologati, il britannico Joe Cornish trae ispirazione per il suo primo lungometraggio, Attack the Block, da un episodio di criminalità sperimentato in prima persona: un’aggressione notturna da parte di cinque giovani teppistelli.

Per il trentatreenne regista e sceneggiatore londinese (autore dello show BBC Adam & Joe e dello script de Le avventure di Tin Tin spielbergiano) l’occasione è sgradevole ma quantomai proficua. Rielaborando l’esperienza subita in chiave sci-fi-pop, Cornish realizza infatti un esordio brillante, salutato con divertita benevolenza dalla critica festivaliera internazionale (e non solo quella “specializzata”) e capace di ritagliarsi uno spazio tutto inglese in una nicchia “di genere” solitamente dominata da blockbuster hollywoodiani.

Il “block” citato nel titolo del film è invece quello di Inner City, sobborgo popolare della periferia londinese, dove la chiassosa gang capeggiata dal quindicenne Moses (John Boyega) imperversa dandosi arie da padrona, ma senza avere il coraggio di mostrarsi a viso aperto. Ci penseranno alcune creature spaziali dall’aspetto poco invitante a rimetterla in riga, facendole perdere la voglia di rivalersi sui più deboli.

Il leitmotiv trito e ritrito dello scontro tra terrestri ed extra-terrestri per la salvaguardia del Pianeta (o, è questo il caso, di una sua più ristretta porzione) diventa per Cornish rielaborazione estremizzata di un’esperienza vissuta in pieno regime di realtà, ma offre anche al regista l’opportunità di rileggere in senso iperbolico la condizione, per l’appunto alienante, della vita di quartiere. Moses, Pest, Jerome, Dennis e Biggz, con quell’atteggiamento strafottente e irrispettoso che vorrebbe scimmiottare i modi dei gangster adulti (ma non per questo meno ridicoli, come l’improbabile antagonista “pulp” Hi-Hatz), sono il prodotto perfetto dell’isolamento – spaziale e sociale – del sobborgo, microcosmo caro alla cultura urbana di stampo britannico e vero e proprio terreno di studio antropologico.

Più che residuo definitivo della civiltà post-industriale, il “block”, il “quartiere” popolare, diventa nell’immaginario cinematografico contemporaneo un ecosistema dominato da leggi proprie, nel quale i più giovani operano indisturbati senza la supervisione di figure genitoriali (sempre relegate sullo sfondo) o di potere (la polizia, ottusa e violenta, spesso senza volto), in un eccesso di indipendenza che rasenta l’abbandono. Lasciati praticamente a loro stessi, adolescenti e bambini (l’esilarante duo Probs-Mayhem, dieci anni a testa) si arrangiano come possono, non solo per ammazzare il tempo ma per riuscire ad arrivare a fine giornata, o meglio, nottata, senza essere ammazzati a loro volta.

Che la loro avventura non abbia un inizio né una fine particolarmente motivati non sembra avere alcuna importanza nell’economia di quello che, a tutti gli effetti, si presenta a un primo impatto come puro e semplice divertissement cinematografico: una miscela variegata ma efficace di elementi fantascientifici, orrorifici (con qualche deviazione vagamente splatter) e giovanilistici, condita con dialoghi ironici in slang sincopato (a malapena comprensibili senza sottotitoli) e shakerata nella migliore tradizione dell’amusement adorniano, ovvero dell’intrattenimento disinteressato.

Cornish – che pure rifiuta l’impiego massiccio della CG a favore dell’autenticità recitativa – non si preoccupa affatto di mascherare il proprio debito verso un’estetica che attinge a mani basse dal repertorio del fumetto british alla Kick Ass o alla Scott Pilgrim (montatore e autore delle musiche sono d’altronde gli stessi del film di Wright) o della serialità altrettanto british di Misfits. La concatenazione delle inquadrature, la sintassi epilettica del montaggio di Jonathan Amos, la presenza martellante della soundtrack elettro-rap (con chiusura di Basement Jaxx sui titoli di coda) contribuiscono alla creazione di un impianto visivo perfettamente in linea con la cultura che si prefigge di rappresentare – seppure in maniera parossistica – e di un climax che cerca di tenere lo spettatore in uno stato di fibrillazione costante, fino all’esplosiva (in tutti i sensi) sequenza finale.

Eppure qualcosa si agita sotto la superficie del puro entertainment, e non si tratta soltanto di qualche mostriciattolo peloso con i canini fosforescenti. È l’ambizione ad una qualche forma di profondità, di serietà, quasi, che si manifesta in latenza senza riuscire ad esprimersi del tutto. L’indole mostruosa e incontrollata delle creature aliene lascia ben poco spazio – se non sul finale – all’effettivo eroismo dei protagonisti, e Cornish, come lo scozzese Mark Millar (autore cult di Kick-Ass), non si lascia intimidire dai tabù sulla (e della) violenza giovanile, e permette al sangue di scorrere in abbondanza (per favore non prendete l’ascensore!) rivelando una certa predisposizione sadica della macchina da presa.

E seppure non determinante a livello narrativo, o diegetico, è interessante, nella sua ingenuità, il tentativo di interpretare l’alieno (non a caso “the blackiest black ever”) quale metafora di ostracismo socio-razziale, come sintetizzato nel breve monologo di Moses: “No, I reckon yeah, I reckon, the Feds sent them anyway. Government probably bred those things to kill black boys. First they sent in drugs, then they sent guns and now they’re sending monsters in to kill us. They don’t care man. We ain’t killing each other fast enough. So they decided to speed up the process.” La crociata quasi suicida di Moses per la difesa del quartiere assume allora una valenza archetipica, da viaggio dell’Eroe in versione last minute, e il suo atto sacrificale corona infine il desiderio di un riconoscimento sociale con il quale sfuggire al vuoto dell’alienazione. Quella vera, tutta terrestre.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Peasyfloyd (ha votato 7 questo film) alle 14:52 del 8 ottobre 2012 ha scritto:

film molto interessante sì. Imprevedibile per diversi punti e con ampie riflessioni sul sociale che Fulvia ha messo benissimo in evidenza in un'ottima recensione.

tramblogy alle 0:28 del 20 maggio 2013 ha scritto:

Insomma...