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8/10

Love Is the Devil. Study for a Portrait of Francis Bacon regia di John Maybury

Biografico
recensione di Fulvia Massimi

Un flash nella vita del pittore inglese Francis Bacon: la vecchiaia, gli eccessi e il tormentato rapporto con il giovane amante George Dyer.

E' sufficiente pensare al titolo per capire che la pellicola di John Maybury è molto più di un semplice ritratto del “più grande artista inglese vivente”.

Love is the devil unisce con la potenza dell’ossimoro l’amore e il male, l’amore per il male, per il sangue e la violenza e l’orrore della condizione umana che Bacon volle indagare ossessivamente, negando alla stampa il piacere di dipingerlo come un morboso voyeur della vita, fingendo di nascondere dietro all’apparente casualità della sua pittura - innovativa e geniale perché in grado di dettare il dominio della figura in un panorama invaso dal non-figurativo - la totale mancanza di ottimismo e la fascinazione per un mondo oscuro che pervadeva i più profondi recessi della sua anima e trasudava dalle pareti del suo piccolo atelier londinese.

Love is the devil è anche l’amore tormentato per George Dyer e di George Dyer, l’amante che morirà suicida all’Hotel des Saints-Pères di Parigi nel 1971, prima dell’apertura della mostra di Bacon al Grand Palais. E il sottotitolo Study for a portrait of Francis Bacon non è che una profonda ricerca di vicinanza con l’attitudine stessa dell’artista di dedicare la sua vita allo “studio di”, allo “studio per”, alla rivisitazione dell’arte del passato e dei modelli tradizionali alla luce di un panorama storico-culturale e di un’esperienza di vita impossibili da travalicare.

Ma quello di Maybury è solo un fotogramma, perfetto nella sua voluta imperfezione, nella sua carica grottesca e impietosa, di quella che fu l’esistenza di Bacon per intero. Un ritratto imparziale che coglie il pittore ormai sessantenne e il suo incontro con Dyer.

George Dyer (Daniel Craig) il ladruncolo che cade letteralmente dal cielo piombando con uno schianto nell’atelier dell’artista e rimane sopraffatto dalla violenza delle immagini, dei colori, delle fotografie che tappezzano i muri e sussulta nel veder comparire un uomo che, senza scomporsi minimamente, gli propone di venire a letto con lui. “Vieni a letto con me e potrai prendere quello che vuoi”. E George accetta. Ma non se ne va. Diventa la “nuova moglie” di Bacon (Derek Jacobi), ed è costretto a seguirlo, impacciato e scostante, sigaretta in bocca e sguardo schivo, nei bar popolati da un teatrino raccapricciante di omosessuali snob, dalla lingua tagliente, disgustosamente intenti a succhiare frutti di mare come bestie, i volti grottescamente ingranditi e riflessi nell’argenteria di ristoranti costosi, caricature umane non diverse dalle creature mostruose dei Tre Studi Per Una Crocifissione. Borghesi perversi e cinici, disumanizzati, ridotti a puri elementi anatomici, che sottolineano quella stessa ossessione di Bacon per la carne, per il corpo dissezionato, l’ossessione per la bocca e per le viscere, per le interiora calde e umide che per sua stessa ammissione ama esplorare con le dita.

Francis Bacon non è uomo che si ama facilmente, eppure George ne è soggiogato. George, il "concentrato di immoralità ed innocenza", l’amante che si rannicchia contro il corpo del partner di notte. L’amore di Bacon per George non è esplicito: per Francis l’amore è sottomissione, sottomettersi completamente al partner dominante. E George è quel partner. Sostiene di avere il controllo della situazione, ma l’unico controllo che ha, nella relazione con Francis, è quello sessuale, vincolato al letto, al sadismo che infligge con rimorso al compagno (emblematico il “mi dispiace” pronunciato prima della tortura), alla bruciatura della carne, ai colpi della cinghia. Ma fuori dal talamo maledetto, George è succube dell’eclettica personalità dell’artista, brillante, intelligente e spietatamente sarcastico. È schiavo di quell’uomo che si lava i denti con il Vim e si trucca prima di uscire (sostenendo però che non ci sia nulla di peggio di una “vecchia frocia” agghindata), l’uomo che si eccita quando il sangue dei pugili sul ring gli schizza sulla faccia e considera la boxe un preludio al sesso, che sogghigna di fronte al volto sconvolto e insanguinato della balia ne La corazzata Potëmkin di Ejzenštejn.

George finisce col diventare presto una seccatura, un giocattolo troppo usato, un peso per l’artista che voleva dipingere la massima realizzazione del grido umano sulla tela e che è disturbato dal fruscio del giornale del compagno, patetico nel disperato tentativo di attirare la sua attenzione leggendogli l’oroscopo e tentando ripetutamente suicidi sminuiti dall’artista davanti agli amici. La gelosia per l’indifferenza e i tradimenti di Francis gettano Dyer nel vortice dell’alcolismo e l’arcangelo si trasforma in un Lucifero caduto dal cielo. “Il mio amante sarà il mio assassino o io il suo”. E i pensieri di Bacon scorrono davanti ai flash di un’immaginaria macchina fotografica insieme a corpi nudi che si contorcono e presagi di morte: George ricoperto di sangue che cade da un trampolino rosso carminio, George così intrinsecamente legato alla caduta.

Il sentimento d’amore del giovane, bellissimo, glaciale, così ignorante e così puro insieme, finisce per schiacciarlo e l’ammissione, quel “ti amo” faticosamente pronunciato solo alla fine del film e liquidato da uno spietato “ma dove le trovi queste frasi fatte?”, aleggerà senza risposta, mentre George si suicida ingoiando pillole e alcool nel bagno di una stanza d’hotel, attorniato da specchi dai contorni rosso sangue che lo rinchiudono come la gabbia di Innocenzo X, richiamo potente all’arte di Bacon quanto il trittico di specchi sopra il lavabo nella sua cucina. È c’è un ultimo barlume di affetto, un gesto di disinteressata tenerezza (simile all’abbraccio del pittore con l’amante che si lava le mani ossessivamente), una carezza al cadavere di George nel bagno, il suo corpo, forse, o il suo ricordo. E le lancette dell’orologio da polso che ticchettano forsennatamente al contrario fanno calare il sipario su una storia che era iniziata con un cuscino, il cuscino di George, in cui Francis affonda il volto, per respirarne l’odore, per esserne soffocato, quasi.

Chi dice che la noia si insinua tra le pieghe del film non ha capito nulla. Non è la lentezza, nè il silenzio, che rendono un film tedioso. Nè, al contrario, velocità e rumore lo rendono un capolavoro. Spostare una virgola della pellicola di Maybury vorrebbe dire incrinare il metabolismo perfetto di un organismo volutamente impreciso, grezzo, sbozzato, grottesco e macabro, spietatamente ironico e sottilmente cinico, che inquadra perfettamente il personaggio di Bacon e la sua arte. Love Is The Devil è arte esso stesso, è l’assemblaggio di flash distorti che, uniti tra loro, danno l’esatta incompletezza di una storia di cui conosciamo solo attimi ma che ci sembra di cogliere nella sua totalità. E Derek Jacobi è l’interprete sensazionale di un artista consapevole di sapersi guardare dentro ma di non sapersi guarire, consapevole di amare l’oscuro e il torbido ma di non riuscire sempre a raggiungerlo sulla tela. Daniel Craig si cimenta egregiamente in un ruolo complesso, quello di un uomo turbato e intimamente troppo fragile per reggere il confronto con un artista dall’ego così smisurato da credersi inconsciamente Dio. E il connubio tra i due è perfetto, poichè la freddezza dell’uno stride e bilancia l’inadeguatezza dell’altro e la follia finisce con l’avere le sfumature dell’incubo ad occhi aperti, della fascinazione per la morte, per l’artistica composizione dei corpi sparsi qua e là sulla strada dopo un violento incidente.

Se c’è, allora, una sola frase che può racchiudere il valore dell’opera di Maybury è senza dubbio quella pronunciata nel film da Derek Jacobi/Francis Bacon: Non c’è bellezza senza ferita.

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