T Trailer

R Recensione

7/10

The Impossible regia di Juan Antonio Bayona

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

26 dicembre 2004, Khao Lak. Una coppia inglese – Maria (Naomi Watts) e Henry Bennett (Ewan McGregor) – in vacanza con i tre figli Lucas, Thomas e Simon in un lussuoso resort thailandese, riesce a sopravvivere allo tsunami che si abbatte sull’isola la mattina di Santo Stefano. La famiglia, però, è divisa: da un lato, Maria e Lucas trovano aiuto in un ospedale locale, dall’altro, Henry e i due figli più piccoli rimangono tra le macerie dell’hotel. L’uomo rifiuterà di rifugiarsi sulle montagne pur di continuare la ricerca della moglie e del primogenito, e non si fermerà finché non li avrà ritrovati. 

Chi avesse vissuto con apprensione, per non dire puro terrore, le sequenze girate da Clint Eastwood nelle Hawaii all’epoca di Hereafter è caldamente invitato ad astenersi dalla visione di The Impossible. Il secondo lungometraggio del regista di The Orphanage, lo spagnolo Juan Antonio Bayona, è infatti uno sconvolgente viaggio in presa diretta all’interno di uno dei cataclismi naturali più violenti degli ultimi quarant’anni. Ispirato alla vera storia (e sottolineo vera) di Marìa Belòn, sopravvissuta alla catastrofe insieme all’intera famiglia, il film di Bayona ne ricostruisce con perizia – grazie alla consulenza della stessa Belòn nella stesura dello script (firmato nuovamente da Sergio G. Sànchez) – la drammatica (dis)avventura, consentendo allo spettatore di viverla sulla propria pelle.

Laddove Eastwood si era servito dello tsunami come movente della conversione “metafisica” della cinica reporter francese Marie Lelay, “limitandone” le sofferenze per ovvie esigenze diegetiche (l’episodio era parte di un trittico sul tema dell’aldilà), Bayona protrae l’agonia della sua splendida protagonista (Naomi Watts, candidata al suo secondo Oscar dopo 21 grammi), e del suo pubblico con essa, per quasi sessanta minuti, offrendo un doloroso insight del prima, durante e dopo il disastro.

Scene di gioiosa normalità familiare, spinte fino alla perfezione artificiosa dello spot vacanziero, precedono l’insostenibile sequenza dello tsunami, instaurando un clima di inquietudine e non specificato presentimento da “quiete prima della tempesta”. La natura tace, apparentemente immutata, attendendo il momento adatto per ribellarsi all’uomo, ignaro di tutto. Bayona alterna il rumore assordante dell’acqua in sommovimento (fin dai titoli di testa), a soggettive antonioniane di una distesa placida e silente, tutt’altro che minacciosa, e la padronanza dei meccanismi dell’horror dimostrata con la sua opera prima (concorrente spagnola alla corsa agli Oscar nel 2008) gli è senza dubbio d’aiuto.

Più che di “orrore”, in realtà, sarebbe piuttosto il caso di parlare di “terrore”, poiché quello esperita da Maria e Lucas (inizialmente, e in apparenza, unici protagonisti del film) è una paura cieca e irrazionale, priva di un oggetto conosciuto verso cui rivolgersi. L’orrore è ciò che intrattiene ancora un rapporto con l’umano, è il mostro partorito dalla mente dell’uomo, o la sua aberrazione antropomorfa, ma il terrore è nell’Altro senza volto e senza motivo, nella forza incontrollata con la quale relazionarsi è impossibile quando non si dispone degli strumenti adatti per farlo.

Bayona si serve dunque delle dinamiche dell’horror per orchestrare la tensione che anticipa la tragedia ma, una volta raggiunto il cuore dell’azione, le abbandona per seguire il filo della disperata lotta alla sopravvivenza e, successivamente, il melodramma del ricongiungimento familiare strappalacrime. La sceneggiatura di Sànchez, in bilico tra desiderio di autenticità e necessità d’intrattenimento cinematografico, assolve pienamente a tale scopo, alternando allo shock visivo ed emotivo delle sequenze iniziali il parziale rilassamento della fase di salvataggio, e tornando a toccare nuovamente le corde sensibili del pubblico con l’unica conclusione possibile dopo un simile carico di sofferenza.

Il ritmo non si stempera, e la tensione, seppure di diversa natura (spaventosa prima, drammatica poi), costella sapientemente lo svolgersi della narrazione, concedendosi momenti di speranza e perfino di gioia nella devastazione (la carezza del piccolo Daniel, la corsa di Lucas alla ricerca dei famigliari altrui). Ed è probabilmente grazie alla fotografia accecante di Óscar Faura (habitué degli antri scuri dell’horror e del dramma realista) che l’odissea di Maria e Lucas – più che di quella, disperata ma meno approfondita, di Henry (la scena della telefonata è sufficientemente straziante) – riesce a non farsi prevaricare dal senso di perdita e di morte, nonostante i cadaveri senza nome e i corpi tumefatti che affollano le corsie dell’ospedale.

La volontà di aderire il più possibile alla verosimiglianza degli eventi (eccezion fatta per la nazionalità dei personaggi, mutata per probabili esigenze distributive, nonché per la scelta della Watts da parte di Maria Belòn) è anche prerogativa registica dello stesso Bayona, che anziché servirsi esclusivamente degli effetti di grafica digitale per ricreare la marea montante dello tsunami, si avvale di strumentazioni più “tradizionali” e, per sua stessa ammissione, “folli”, come l’uso di miniature ricostruite in studio e l’impiego di vere ondate d’acqua sul set spagnolo.

Il risultato è stupefacente e agghiacciante al tempo stesso. Complice l’interpretazione della Watts e del giovanissimo esordiente Tom Holland nei panni di Lucas, e il ricorso alternato a campi lunghi (con ripetute panoramiche dall’alto) e ravvicinati (fino al lunghissimo dettaglio sugli occhi sofferenti di Maria), è letteralmente impossibile astrarsi dagli avvenimenti e non partecipare al terrore sperimentato dai personaggi in balia delle onde, e di tutto ciò che di letale e misterioso si aggira nelle loro profondità.

Attraverso la ricostruzione a posteriori di un incubo dalle suggestioni boormaniane, l’esperienza dolorosamente fisica del disastro viene vissuta in prima persona, e così anche ciò che ne consegue: non eliso grazie a un facile taglio di montaggio, ma percorso e raccontato in tutta la sua durata. La natura matrigna obbliga l’uomo a rivedere le proprie prerogative (la scelta di Henry) ma anche i ruoli normalmente imposti dal vivere civile. E allora i bambini si costringono ad essere forti, perfino più degli adulti, a far loro da guida, da braccio, da spalla su cui arrampicarsi, ad assumersi una responsabilità che non dovrebbero ancora essere la loro.

Ritrovare la “normalità” sembra un’impresa apparentemente impossibile, quasi quanto distinguere le stelle morte da quelle ancora vive (è questo il “bellissimo mistero” raccontato a Thomas da Geraldine Chaplin; la metafora che dà il titolo al film). Eppure, la potenza della coincidenza cinematografica interviene infine a correggere quell’impossibilità, rendendola attuabile: il film si chiude ad anello, recuperando i fotogrammi iniziali, ma la consapevolezza dei personaggi, e dello spettatore con essi, ne esce rinvigorita, al punto da considerare la tragedia, nelle parole di Maria Belòn, “un dono incredibile”, un’occasione per abbracciare la vita e attribuirle nuova importanza.

V Voti

Voto degli utenti: 5,5/10 in media su 2 voti.
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
Faria 5/10

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.