Melancholia regia di Lars von Trier
FantascienzaLa depressa Justine manda a monte il suo matrimonio a poche ore dall'inizio del ricevimento mentre la sorella Claire si lascia angosciare dal passaggio di un pianeta in rotta di collisione con la Terra. L'orbita di Melancholia non incontrerà soltanto quella terrestre ma anche quella delle due donne, condizionandone la (breve) esistenza.
Nel 2009 fu con lo scioccante Antichrist che Lars Von Trier - autore tra i più controversi del panorama cinematografico contemporaneo - divise il pubblico di Cannes tra accaniti detrattori ed entusiastici cultori (spaccatura che interessa pressoché interamente la sua carriera). Oggi, a soli due anni di distanza dalla pellicola che valse a Charlotte Gainsbourg il premio per la miglior interpretazione femminile, le dichiarazioni inutilmente provocatorie rilasciate dal regista danese in conferenza stampa rischiano di adombrare la potenza stregante della sua ultima fatica: Melancholia, dramma fantascientifico e pre-apocalittico di un'umanità proiettata verso l'inevitabile distruzione.
Attirando l'interesse mediatico della stampa più o meno specilistica su presunte simpatie naziste piuttosto che sulla struggente bellezza della sua pellicola, Von Trier - che dopo quasi trent'anni di onorata frequentazione non sarà più ospite gradito sulla Croisette - offre l'ennesima conferma di una propensione allo scandalo che se da un lato strizza l'occhio al botteghino, dall'altro impedisce ai suoi lavori di guadagnarsi un'esistenza ed un riconoscimento autonomo, scorporati dalla fama ambigua e ambivalente del loro creatore.
Ormai lontano (ma non per questo dimentico) dai tempi di Dogma 95, Von Trier sconfessa i principi del movimento "purificatorio" fondato a Copenaghen nel marzo del 1995 per dedicarsi ad una ricerca estetica di indiscutibile pregio: una linea continuativa che recupera molte delle scelte operate già con Antichrist. Dopo la parentesi comica de Il grande capo - dove le risorse randomizzate dell'automavision venivano impiegate con esiti stranianti e divertiti - il cineasta danese si volge ad una sorta di rinnovata sperimentazione, uno stile curato, analitico e certamente non casuale nel quale l'elaborazione di contenuti personali, disturbanti e, per alcuni, opinabili non vieta tuttavia di leggere l'esaltazione di un valore artistico indipendente dalla natura del suo autore (un discorso applicabile, ad esempio, ai lavori della Riefensthal).
Il lunghissimo prologo in slow-motion, esaltato dalla fotografia preziosa di Michael Alberto Caro, richiama immediatamente alla memoria l'incipit di Antichrist ma la sua capacità seduttiva esula dall'illustrazione di una carnalità artisticamente pornografica per riferirsi invece alla dimensione del sogno o piuttosto dell'incubo: una sequenza di immagini oniriche e flashforward, inframmezzati da epifanie apocalittiche (affidate, come in Antichrist, al mondo animale) e citazioni iconografiche non meno rivelatrici (Justine galleggia sull'acqua come l'Ofelia shakespeariana dipinta da Millais), scorre al ritmo lento e ammaliante del leit-motiv wagneriano (il preludio al Tristano e Isotta, non meno efficace di Händel), generando un effetto ipnotico d'impatto analogo.
Otto minuti sono sufficienti a Von Trier per dare prova di sé, condensando in uno spazio-tempo ristretto eppure paradossalmente dilatato la disintegrazione dell'universo conosciuto: il collasso dell'esistenza filtrato attraverso gli occhi spenti e il grido muto di due donne rimaste sole alla fine del mondo. Melancholia procede allora - come il pianeta fittizio da cui prende il titolo - a rivelare il senso di tali anticipazioni, avvicinandosi gradualmente ma con incombenza pressante al momento della verità. Attraverso una struttura sdoppiata, che segue in due capitoli divisi le sorti prima di Justine e poi di Claire, la sceneggiatura di Von Trier si serve dell'individuo per raccontare l'universale, traducendo in scrittura ciò che Kubrick era solito fare con la carrellata: un allargamento di campo e di prospettiva che nelle intenzioni registiche del film-maker danese trova invece diversa realizzazione.
La predilezione insistita per la camera a mano (e il senso di precarietà ad esso associata) rimanda in qualche modo al realismo anti-tecnologico di Dogma ma col risultato (in principio tenacemente rifiutato) di mettere in risalto l'individualità, la responsabilità e il senso di presenza autoriale dietro l'obiettivo. Un obiettivo che si incolla al personaggio senza fornirgli tregua ma che al soffocamento del primo piano alterna il respiro vasto e inquietante del campo lungo e della plongée, trasferendo l'anima anfibia del film - giocato appunto sul continuo rimbalzo dal particolare al generale - in un discorso registico estremamente strutturato.
Il bipolarismo, psicologico e concettuale, si afferma quale cifra fondante del lavoro di Von Trier, intenzionato ad esplorare nuovamente le derive di una depressione che lo coinvolge in prima persona. A Kirsten Dunst - giustamente premiata a Cannes, come la Gainsbourg prima di lei - il regista affida allora un ruolo ostico e quasi camaleontico (da sposa raggiante a relitto umano il passo è brevissimo), che rimanda in fondo alla complessità di un cinema nel quale l'attenzione al femminile si accompagna alla fatica fisica ed emotiva di rappresentarlo.
Spesso tacciato di discutibile misoginia, Von Trier si addentra nella personalità enigmatica e ambivalente della Donna - di cui ritrae il lato umano come quello diabolico (o, nel caso di Justine, patologicamente schizofrenico) - lasciandole l'ingrato ma necessario compito di constatare la corruzione del mondo (racchiusa nel lucido dialogo tra le due sorelle) e assistervi impotente, mentre l'Uomo - pavido, sfuggente, inutile (i personaggi interpretati da Alexander Skarsgård e Kiefer Sutherland subiscono tutto il disprezzo del regista) - si defila con egoismo, senza offrirle alcuna difesa.
La fine annunciata non è per questo meno sconvolgente: nell'azzeramento di ogni forma di vita essa non cancella però l'intensità del terrore (splendidamente inscenato dalla Gainsbourg negli istanti finali del film) e del disagio che Von Trier è in grado di incanalare nella sua opera, un'energia silenziosa che genera sgomento ma anche sollievo, poichè da essa si sprigiona l'esito liberatorio di una follia comunque destinata ad autoannientarsi. Il grande scalpore internazionale generato dalla gaffe del regista è allora ben poca cosa di fronte alla maturità del suo lavoro, elogio di una malinconia che annichilisce e conquista e che non potrebbe trovare forma più elevata entro cui trasfigurarsi.
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