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8/10

Beginners regia di Mike Mills

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

A pochi mesi dalla morte del padre (Christopher Plummer) – omosessuale a scoppio ritardato e consumato da un cancro ai polmoni – il disegnatore Oliver Fields (Ewan McGregor) incontra Anna (Mélanie Laurent), stravagante attrice francese di passaggio a Los Angeles. Insieme cercheranno di capire come proteggere l’amore da quella tristezza che li accomuna e al tempo stesso li allontana.

L’uscita italiana era prevista per il 9 dicembre ma l’opera seconda di Mike Mills, recentemente investita di riconoscimenti ai Gotham Awards newyorkesi, arriverà da noi soltanto in DVD, confermando una triste tendenza distributiva tipicamente nostrana, volta a penalizzare, senza ragione, prodotti indie di indiscutibile qualità (vedi Restless di Gus Van Sant).

Pellicola liberamente autobiografica, salvo lievissime variazioni, Beginners ripercorre in modo volutamente non lineare, e con suggestioni di chiara ispirazione europea, un anno decisivo nella vita del regista: il 2003, segnato dalla scomparsa del padre e dall’incontro con una donna che, dopo anni di fallimenti più o meno consapevoli, potrebbe rivelarsi quella giusta.

Quello di Mills, autore pressoché esordiente nel cinema di “fiction” ma dal talento immaginativo non indifferente, è un film che ha il pregio del silenzio, l’abilità di saper raccontare le relazioni tra individui (non necessariamente umani) senza bisogno di eccedere nella dialettica, contando piuttosto sull’immediatezza dell’immagine. Affetto e amore possono nascere anche senza parole, conservando una naturalezza ed una spontaneità che il confronto verbale rischia invece di distruggere: la storia tra Oliver e Anna si afferma all’insegna del mutismo – una sorta di slapstick sentimentale che investe anche la relazione tra il protagonista e l’inseparabile jack russell Arthur (munito di geniali sottotitoli) – mentre alle musiche di Roger NeillDave Palmer Brian Reitzell è affidato il compito di colmare, e a tratti coprire, gli istanti di verbalità non necessaria.

Attraverso gli occhi e la voce del suo alter ego Oliver Fields (un perfetto Ewan McGregor), Mills espone dunque le difficoltà dei rapporti, umani oltre che sentimentali, recuperando un percorso di riflessione iniziato con il suo primo lungometraggio, Thumbsucker – Il succhiapollice, e orientato all’esplorazione di un male di vivere che sembra affliggere l’uomo dalla nascita (dell’universo).

Se in Thumbsucker l’inadeguatezza adolescenziale veniva combattuta a colpi di pillole anti-depressive e timide (ma frustrate) conquiste sessuali, in Beginners – che del film d’esordio di Mills è l’ipotetica continuazione – all’incapacità di confrontarsi con le incertezze della vita matura si oppone l’antidoto più instabile e dunque più pericoloso: l’amore. Lasciato solo, privo di istruzioni – senza forse averle mai avute – e con alle spalle un modello genitoriale tutt’altro che confortante, Oliver Fields incarna, dopo il Justin Cobb di Thumbsucker (Lou Pucci, qui in un brevissimo cameo), la seconda età di quell’homo patiens che il cinema di Mills si propone di ritrarre (nel vero senso della parola) con originalità.

Graphic designer prima ancora che documentarista e autore di videoclip musicali, il regista californiano filtra attraverso l’estetica, approssimativa ma puntuale, del disegno la propria, personalissima rielaborazione dell’incomunicabilità dei sentimenti antonioniana: quel naufragio emotivo che colpisce la coppia con la forza di un maremoto ma che si trattiene nell’interiorità del corpo, cerebrale, senza far defluire all’esterno la propria ferocia. La sperequazione femminile e femminista sostenuta dal cinema di Antonioni – che alla donna riservava il ruolo “attivo” di risolutrice dei conflitti – non trova però uguale applicazione nella pellicola di Mills, dove l’inettitudine emotiva di Oliver, incapace di lasciarsi avvicinare senza ferirsi, vede nell’instabilità di Anna (magnifica Mélanie Laurent) il suo corrispettivo.

Entrambi soli, disorientati, in qualche modo vittime di un nomadismo che si esplica nell’anonimato mai stanziale, mai veramente libero, di camere d’albergo e appartamenti svuotati (ma caricati di una vita propria), Oliver e Anna si ritrovano, insieme, nel solco tracciato tra due diverse forme di umanità: chi crede che le cose non funzioneranno mai e chi invece ripone le proprie speranze nei sogni. Ma l’obiettivo, forse faticosamente conquistato soltanto nel finale, rimane quello di scoprire un luogo in cui tutto sia semplice e felice, in cui le presenze ingombranti del passato non abbiano più ragione di ostacolare l’unione di due solitudini che aspirano a fondersi pur senza rinunciare a se stesse.

Il montaggio di Olivier Bugge Coutté costruisce un tempo fluido, un impasto di ricordi e vita vissuta che oscilla, con stabilità, tra un presente da costruire e un passato che ha lasciato il segno. I dettagli di un affetto potente, costruito con devozione filiale ed estrema sensibilità nello spazio effimero degli ultimi anni di vita paterna, si affiancano ad una coscienza storica che non si esplica soltanto su muri segnati dal vandalismo graffittaro della notte, ma anche, e soprattutto, nel dispiegarsi di una memoria visiva che fa da supporto alla voce-over narrante.

Nella segmentazione pop-documentaristica dell’immagine filmica, intervallata da inserti fotografici “di repertorio”, la creatività artistica di Mills ha modo di rivelarsi in tutta la sua efficacia, affidando un senso nuovo al concetto di “flusso di coscienza”. La storia individuale di Oliver si dipana come un libro illustrato (o il cofanetto di un album), tracciando al tempo stesso la cronistoria universale della tristezza e le tappe salienti di una cultura americana intrinsecamente legata all’evoluzione del singolo. Com’erano il sole, le stelle, la bellezza, l’amore cinquant’anni fa? Come sono adesso, che cosa è cambiato, quale eredità ci è stata lasciata?

Sul personaggio di Hal Fields, splendidamente interpretato da Cristopher Plummer, il contrasto tra vecchio e nuovo mondo si compie con maggiore chiarezza e un pizzico di ironia: la (ri)scoperta tardiva della propria omosessualità, resa praticabile da un contesto (la Los Angeles ultra-liberal del ventunesimo secolo) e da un corollario di affetti sinceri, diventa la dimostrazione di un cambiamento epocale, una metamorfosi storica che, dalle lotte anni ’70 per i diritti civili, transita fino all’orgoglio arcobaleno di un’epoca in cui tutti conoscono il significato di una bandiera a sei colori.

Pur raccontando se stesso attraverso il recupero di un’atmosfera cinematograficamente europea, Mills non fa altro che raccontare l’America e le sue contraddizioni, cercando di comprendere gli effetti dell’evoluzionismo storico-sociale sull’apparato emotivo dell’individuo. Ciò che era iniziato come un viaggio a ritroso nella propria biografia si trasforma allora in un bozzetto, poco più di uno schizzo preparatorio, un’idea ancora grezza di futuro potenziale, racchiuso in un ultimo sguardo muto tra due possibili compagni di vita. La bellezza pulita, tersa, degli affetti concreti – l’incontro tra due anime gemelle, la devozione di un figlio per un padre riscoperto – sono i temi universali che Mills porta a galla con delicatezza, facendo propria, e infine difendendo, la morale racchiusa nel Coniglietto di Velluto di Margery Williams: «Quando sei vero non puoi essere brutto, se non per quelli che non capiscono.»

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