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7/10

Night Fishing regia di Chan-kyong Park

Fantasy
recensione di Fulvia Massimi

Un pescatore solitario (Kwang-rok Oh ) si confronta con i fantasmi del passato quando qualcosa di inaspettato abbocca al suo amo.

“Chan-wook, Chan-wook, vieni a pescare con noi, ci manca il telefonino”. Probabile che la proposta di ingaggio sia arrivata a Chan-wook Park in modo decisamente più formale, ma il succo della collaborazione tra il regista e la KT Corporation, azienda coreana leader nelle telecomunicazioni, è più o meno lo stesso. Risultato di questa insolita sinergia promozionale è Night Fishing (in originale, Paranmanjang: ”alti e bassi”) – cortometraggio sperimentale low-budget scritto a quattro mani da Park con il fratello Chan-kyong e girato con il solo ausilio di un iPhone4.

Che si tratti di una pura e semplice trovata pubblicitaria, realizzata ad hoc per il lancio del melafonino in Corea, è quantomai discutibile. Con alle spalle una carriera faticosamente consolidata e uno status cultuale praticamente inattaccabile, Chan-wook Park non è più il genere di regista per cui le strategie di marketing possano fare la differenza.

Dopo il successo internazionale della “trilogia della vendetta” e il premio della Giuria conquistato a Cannes 2009 con Thirst, sontuoso horror vampiresco dalla locandina-scandalo, l’esperimento di Night Fishing si configura piuttosto come il tentativo – pienamente riuscito, stando ai risultati della 61esima Berlinale – di forzare i limiti e le convenzioni poste dal mezzo cinematografico, senza mai rinunciare alla potenza crudele di una scrittura che, per quanto surreale, scava come un bisturi nel corpo (morto) della società contemporanea e nella meschineria dei suoi rappresentanti.

Il regista di Oldboy non si lascia scoraggiare dalle inevitabili difficoltà registiche poste dallo smartphone di Apple, che all’instabilità di ripresa del supporto mobile associa una risoluzione dell’immagine non comparabile a quella offerta da una moderna videocamera digitale. Piegando i difetti del device a proprio favore, Park aggiorna al ventunesimo secolo le rivoluzioni tecnico-formali attuate negli anni ’60 dalla Nouvelle Vague, trasformando l’iPhone4 in una versione 2.0 della camera a mano tanto cara ai Giovani Turchi.

La libertà totale offerta dal mezzo viene così esplorata in tutte le sue potenzialità, confluendo in un discorso filmico ardito, che anziché aggirare gli ostacoli preferisce accoglierli in pieno. Inquadrature capovolte, riprese in subacquea e movimenti di “macchina” tutt’altro che scontati si inseriscono nella cornice straniante di un racconto grottesco, visivamente segnato dalla precarietà dell’istanza guardante e da una soggettività metafisica avvolta da un alone di misteriosa inquietudine.

Fin dalla sequenza d’apertura in puro stile video-clip – affidata alla band degli UhUhBoo Project –  il corto di Park si dichiara all’insegna del presagio di morte: un coagulo di simbolismi funebri e tradizionali (come il cappello nero trasportato dal vento) che anticipano, pur senza svelarle, le tremende rivelazioni del finale. A metà tra incubo dickensiano e delirio lynchiano, Night Fishing scavalca l’impostazione da horror notturn(ian)o degli inizi per inquadrare una ritualità etno-antropologica che, pur nella sua finzionalità, non ha nulla da invidiare alle ricerche documentaristiche di Jean Rouche e dei suoi Maitres fous. 

Non è allora l’aspetto sociale della realtà coreana, dipinto così crudelmente nella filmografia di Park, a emergere da questa sorprendente opera ultima, quanto piuttosto il suo nucleo spirituale, legato alla rielaborazione catartica del lutto e ad una ritualizzazione del dolore che s’impone in scena come mise en abyme, disseminando indizi duplicati e identità sdoppiate. Il gusto ironico per il grottesco, tipico del cinema di Park, permane nella recitazione eccessiva di Kwang-rok Oh (tra i tanti attori-feticcio del regista) e nei dialoghi surreali con la ragazza-pesce Jung-hyun Lee, mentre la volontà, mai sopita negli anni, di ignorare i tabù del pensiero comune – primo fra tutti la violenza sui bambini – esce qui ridimensionata ma non per questo meno disturbante.

Nei bianchi e neri porosi delle riprese in notturna, così come nelle atmosfere velate delle sequenze diurne, Park dimostra di saper volgere a proprio favore anche le condizioni più avverse, rendendo possibile l’incontro tra poetiche autoriali e tecnologie di ultima generazione. Alla profezia formulata da Norma Desmond in Viale del Tramonto, Chan-wook Park risponde allora con il consueto piglio trasgressivo, rilanciando una visione cinematografica che non concepisce il binomio modernità-tradizione in termini oppositivi ma, al contrario, lo vivifica. Il cinema sarà anche diventato (letteralmente) piccolo ma ciò non toglie che possa ancora essere grande.

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