A Un ricordo di Mike Nichols

Un ricordo di Mike Nichols

È morto lo scorso mercoledì, 19 novembre, a New York, il regista e sceneggiatore Mike Nichols (all’anagrafe Michael Igor Peschkowsky, Berlino 1931), fra gli autori più innovativi e lungimiranti degli anni Sessanta, in particolare per la capacità di dare rilievo all’interno di opere volte comunque al grande pubblico, spesso adattamenti di romanzi o lavori teatrali, tematiche in procinto di insinuarsi come dominanti nella società, americana nello specifico, scardinando usi e costumi della buona borghesia mettendone in luce ogni contraddizione e i tanti scheletri nell’armadio (Who’s Afraid of Virginia Woolf?, 1966, il suo primo film). Il malessere esistenziale fra i giovani iniziava a farsi sentire e Nichols fu tra i primi ad avvertire (The Graduate, 1967) il rombo di un tuono lontano preannunciante quella tempesta generazionale che sarebbe scaturita di lì a poco, comportante profondi mutamenti, anche nell’ambito della sessualità. Metteva in scena, servendosi di una regia tanto rigorosa quanto capace di particolari inquadrature, pur destinate alla pura funzionalità narrativa, una quotidianità vista criticamente, al di là di ogni convenzione o retorica.

Nel dare spazio ed offrire rilievo alle interpretazioni degli attori, quindi ai dialoghi, Nichols accentuava l’assenza di una vera e propria realtà da descrivere, essendo quest’ultima in continua trasformazione; mescolando pessimismo di fondo ed un sense of humour piuttosto amaro, delineava inoltre una revisione, anche ideologica, dei generi classici, offrendo spazio ad una particolare “terra di mezzo” nel rendere incerta, consapevolmente, la demarcazione fra commedia e melodramma.

Nato in un famiglia ebrea, padre russo e madre tedesca, Nichols nel 1939, una volta promulgate le leggi razziali, fuggì dalla Germania e raggiunse il padre che già aveva trovato rifugio a New York l’anno prima, mutando l’originario cognome. Dopo aver svolto vari mestieri, nel frequentare i corsi di psicologia a Chicago iniziò ad interessarsi alla recitazione, debuttando come attore nei gruppi teatrali dell’università e poi iscrivendosi all’Actor’s Studio della Grande Mela. Una volta tornato a Chicago, si esibì con i Compass Players presso un cabaret-ristorante che dava il nome al gruppo, per poi trasferirsi nuovamente a New York dove recitò, dal 1957 al 1961, nei teatri del Greenwich Village e in vari programmi televisivi con una propria compagnia, che aveva composto insieme a Elaine May, debuttando a Broadway nel 1960, uno spettacolo da lui scritto e diretto da Arthur Penn (An Evening with Mike Nichols and Elaine May). L’esordio come regista teatrale avvenne nel 1963, Barefoot in the Park, di Neil Simon, mentre quello sul grande schermo tre anni più tardi con Who’s Afraid of Virginia Woolf? (Chi ha paura di Virginia Woolf?), tratto dal dramma teatrale di Edward Albee, protagonisti Richard Burton ed Elizabeth Taylor, quest’ultima premiata con l’Oscar come miglior attrice protagonista (altre quattro statuette furono attribuite a Sandy Dennis, miglior attrice non protagonista; Haskell Wexler, miglior fotografia; Richard Sylbert e George James Hopkins, miglior scenografia; Irene Sharaff, migliori costumi).

Ma il grande successo, in particolare di pubblico, arrise a Nichols con il successivo The Graduate (Il laureato), che gli valse l’Oscar per la miglior regia. L’omonimo romanzo di Charles Webb risultava efficacemente visualizzato, tra adattamenti e modifiche (sceneggiatura di Calder Willingham e Buck Henry), potendo contare sull’apporto di un attore, Dustin Hoffman, proveniente dall’Actor’s Studio, all’epoca sconosciuto e da qui in poi divo, simbolo per antonomasia dell’antieroe, senza dimenticare il fascino estremamente sensuale di Anne Bancroft, indimenticabile Mrs. Robinson, la fresca spontaneità di Katharine Ross, le musiche di Simon & Garfunkel. Il desiderio d’indipendenza proprio della gioventù del periodo, la voglia d’affrancarsi, socialmente e culturalmente, dal mondo degli adulti, intenti a mantenere e perpetrare lo status quo degli agi e delle consuetudini borghesi al cui interno appaiono del tutto integrati, trovavano rappresentazione nel personaggio di Ben/Hoffman, il quale, stordito e confuso, sembra attraversare la vita come un pesce nell’acquario, osservando il mondo circostante ed attuando una disobbedienza basata sul fare di testa sua, senza avere un preciso progetto: “È come se facessi un gioco senza capirne le regole, sono fatte dalle persone sbagliate. No, non sono fatte da nessuno, sembra che si facciano da sole”, spiega Ben ad Elaine/Ross. Un “non eroe”, la cui introversione è imposta dall’esterno, costretto ad isolarsi ed impossibilitato ad attuare una scelta, in un continuo gioco al rimando tra ciò che si è e quel che si vorrebbe essere, fra quanto si pensa di volere e ciò che si vuole (e il finale aperto, tra i sorrisi e gli sguardi “sospesi” dei due giovani ne è la constatazione più evidente). Il tema della collisione fra individuo e società, sviluppato in chiave farsesca ed antimilitarista, lo si ritrova anche in Comma 22 (Catch-22, 1970, dal romanzo di Joseph Heller), e, nuovamente come schiaffo al conformismo, in Conoscenza carnale (Carnal Knowledge, 1971).

Le realizzazioni successive appaiono invece meno interessanti, tanto che l’insuccesso di Due uomini e una dote (The Fortune, 1975), spinse Nichols a ritirarsi dal mondo del cinema, per ritornarvi nel 1983, con il vibrante Silkwood, un film di denuncia sociale supportato dall’intensa interpretazione di Meryl Streep. L’attrice sarà poi diretta da Nichols negli altrettanto riusciti Heartburn ‒ Affari di cuore (Heartburn, 1986), Cartoline dall’inferno (Postcards from the Edge, 1990, dal libro di Carrie Fisher) ed infine nella miniserie televisiva Angels in America (HBO, 2003). Seguiranno nel corso degli anni, in costante alternanza, titoli degni di nota ed altri, a mio avviso, non del tutto felici: fra i primi la briosa e graffiante commedia Una donna in carriera (Working Girl, 1988), il dramma esistenziale A proposito di Henry (Regarding Henry, 1991), forse patinato e schematico ma sempre efficace nella sua resa complessiva, Closer (2004, dal dramma teatrale di Patrick Marber), cinico e disincantato; fra i secondi Wolf-La belva è fuori (Wolf, 1994), curioso melange fra satira sociale ed horror; l’inutile Piume di struzzo (The Birdcage, 1996, remake di La cage aux folles, 1978, Édouard Molinaro, dall’opera teatrale di Jean Poiret, 1973). Lucidità e coerenza delle origini torneranno ne I colori della vittoria (Primary Colors, 1998) e, in parte, La guerra di Charlie Wilson (Charlie’s Wilson War, 2007), suo ultimo film, lasciandoci così il ricordo di un abile e versatile regista artigiano, professionale nel misurarsi con i vari generi cinematografici, distante da una dimensione propriamente autoriale, ma capace di coniugare con sagacia intrattenimento e coinvolgimento emotivo.

Dal blog Sunset Boulevard

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