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R Recensione

6/10

Somewhere regia di Sofia Coppola

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

Johnny Marco, giovane star hollywoodiana in depressione, abita allo Chateau Marmont di Los Angeles come fosse casa propria, sollazzandosi tra psicofarmaci e lap dancer gemelle. Annoiato e abulico, vegeta tra le lenzuola aspettando la chiamata della sua agente, adempie a futili impegni lavorativi e scorrazza per le strade a bordo di una Ferrari, condendo una vita fatta di  niente con qualche occasionale incontro erotico. Il tempo trascorso con la figlia Cleo, “affidatagli” dall’ex-moglie, darà nuovo valore alla sua esistenza.

Vincitore del Leone d'oro alla 67sima Mostra del Cinema di Venezia, Somewhere quarto lungometraggio di Sofia Coppola, aspira a riproporre in veste (se possibile) ancor più minimale i motivi già splendidamente sviscerati in Lost in Translation: la vacuità dell’essere e l’aridità emotiva che si accompagna al successo.

Per scelta anziché per costrizione professionale anche Johnny Marco, come Bob Harris/Bill Murray prima di lui, sperimenta gli effetti stranianti del non-luogo alberghiero ma l’alienazione non è più il prodotto dell’isolamento linguistico e geografico di una metropoli asiatica vista attraverso gli occhi di due americani turisti per caso: Johnny vive l’alienazione paradossale dell’uomo al posto giusto nel momento giusto. La Mecca del cinema non offre orizzonti di gloria per la star svogliata in cerca di un brivido notturno e tra i corridoi sovraffollati dello Chateau Marmont (non che in ascensore non si facciano incontri interessanti) la solitudine non potrebbe essere più abissale. Che si tratti di un hotel losangelino o di un dove assolutamente imprecisato (come suggerito dal titolo) non ha più molta importanza.

Sofia Coppola ci tiene a precisare come il suo film non sia il ritratto di una generazione di divi americani ma soltanto quello di un singolo uomo, eppure il senso effimero della celebrità trasuda da un’esistenza priva di complicazioni che non potrebbe essere più problematica.

Bob Harris sorseggiava whisky sorridendo senza felicità per uno spot milionario e Johnny Marco si presta allo stesso rituale ipocrita per il lancio del suo nuovo film: per entrambi la passione sembra essersi sgonfiata come un palloncino lasciandoli, privi di smalto, a contemplare la propria carriera dall’esterno, adattandosi a formalismi di rito. Formalismi come la conferenza stampa surreale, in cui l’idiozia dei giornalisti va a braccetto con la povertà intellettuale di Marco (incapace di formulare risposte plurisillabiche) o la cerimonia milanese dei Telegatti, in cui la Coppola, oltre a mostrare vividamente tutta la volgarità della televisione nostrana, rimette in scena frammenti autobiografici di un evento vissuto, bambina come Cleo, a fianco del padre.

Lo stile si coniuga al contenuto e la fissità della macchina da presa duplica la staticità del personaggio di Johnny, congelato nella ripetitività di una routine asettica, in cui ogni emozione sembra essere stata risucchiata nel vortice dell’apatia. La spoglia fotografia di Harris Savides non può che acuire il senso di vuoto di una realtà eraclitea, in cui tutto scorre ma nulla di consistente permane, se non qualche affetto isolato. E non è un caso che solo di fronte ai volteggi sul ghiaccio della figlia undicenne, Johnny, annoiato dalla vita al punto da addormentarsi tra le cosce di un’amante occasionale, riesca a ritrovare un barlume di joie de vivre.

Che cosa può offrire a Cleo quel padre-ragazzino che si diverte a giocare a Guitar Hero e a prendere il tè sott’acqua ma nell’unico momento in cui potrebbe confessare i propri errori getta le parole al vento, nel rumore assordante di un elicottero in partenza?

La pellicola di Sofia Coppola si gira un po’ intorno, senza una meta, esattamente come il suo protagonista, mescolando nevrosi, affetti riscoperti e una rinnovata consapevolezza. Al telefono con l’ex-moglie Johnny ammette il proprio fallimento umano ma dall’altra parte della cornetta non trova sostegno (non che a Bob Harris, consultato sulle scelte di tappezzeria, andasse poi meglio) e la lenta agonia della sua vita senza senso si sfilaccia in un finale talmente aperto da sembrare fin troppo scontato. O fuori da ogni interpretazione.

Il confronto con Lost in Translation è incombente e imprescindibile e non può che generare delusione in chi si vede servire di nuovo lo stesso piatto in salsa un po’ più insipida. Stephen Dorff, nonostante l’ottima performance, non ha il carisma né lo humour salace di Bill Murray in trasferta a Tokyo e già questo sarebbe sufficiente a marcare una differenza insormontabile. I dialoghi rarefatti, le lunghe pause, la camera immobile, non bastano a replicare lo stesso risultato e d’altra parte ci si potrebbe chiedere a che pro replicare un capolavoro.

Tra i silenzi contemplativi si insinuano le musiche originali composte dai Phoenix e una colonna sonora frammentata (si spazia dal rock all’hip-hop) da cui spiccano I'll Try Anything Once dei The Strokes (già presenti nella soundtrack di Marie Antoinette) e una ballata della buona notte suonata live dal cameriere dello Chateau Marmont, Romulo. Alle scelte musicali di miss Coppola, come sempre, tanto di cappello.

V Voti

Voto degli utenti: 5,8/10 in media su 4 voti.

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Marco_Biasio alle 21:56 del 24 marzo 2011 ha scritto:

Grande recensione. Il film mi ha fatto addormentare dopo mezz'ora... Scelgo il non voto politico

hayleystark, autore, alle 8:22 del 25 marzo 2011 ha scritto:

Per correttezza verso la Coppola ho cercato di restare sveglia fino alla fine ma ero innervosita già dalle primissime inquadrature. I suoi film, visivamente parlando, sono sempre affascinanti ma questa volta non ho proprio capito la scelta del soggetto. E il verdetto di Venezia è stato imbarazzante.

alexmn (ha votato 8 questo film) alle 11:57 del 25 marzo 2011 ha scritto:

però.

i primi venti minuti avrei voluto 'picchiare' la coppola. poi ha iniziato lentamente a trascinarmi nel suo mondo, fatto di non-azioni, di immobilità. alla fine, inaspettatamente, mi è piaciuto.

e se è vero che dorff non può/riesce ad essere all'altezza di murray, c'è anche da sottolineare la prova di elle, sorellina non petulante di dakota fanning. davvero molto brava, soprattutto in lingua originale. nella scena con la chiatti, se la 'mangia' solo con uno sguardo.

e poi, seppur con altre tematiche e in altri mondi, anche il buon kaurismaki ha sempre vissuto in queste atmosfere.

concordo però sul fatto che a venezia c'era altro che meritava la vittoria (tipo aronofsky).

hayleystark, autore, alle 12:42 del 25 marzo 2011 ha scritto:

Io avrei prestato un po' più d'attenzione anche a Post Mortem di Pablo Larrain che, con una regia simile a quella della Coopola (camera immobile, silenzi estenuanti), ha raccontato magnificamente l'orrore cileno.

Comunque..in quanto amante del cinema della Coppola mi sento un po' più critica che altrove, da una come lei ti aspetti sempre il massimo.

La bravura della Fanning è, proprio come dici tu, da sottolineare (la trovo perfino più interessante della sorella) e il confronto con gli attori "nostrani" effettivamente impietoso. Ci sono scene comunque molto belle (la seduta di "trucco", per esempio, o il pattinaggio sul ghiaccio) ma "tutto il resto è noia". XD

dalvans (ha votato 5 questo film) alle 12:13 del 21 ottobre 2011 ha scritto:

Mediocre

Mediocre