Somewhere regia di Sofia Coppola
DrammaticoJohnny Marco, giovane star hollywoodiana in depressione, abita allo Chateau Marmont di Los Angeles come fosse casa propria, sollazzandosi tra psicofarmaci e lap dancer gemelle. Annoiato e abulico, vegeta tra le lenzuola aspettando la chiamata della sua agente, adempie a futili impegni lavorativi e scorrazza per le strade a bordo di una Ferrari, condendo una vita fatta di niente con qualche occasionale incontro erotico. Il tempo trascorso con la figlia Cleo, “affidatagli” dall’ex-moglie, darà nuovo valore alla sua esistenza.
Vincitore del Leone d'oro alla 67sima Mostra del Cinema di Venezia, Somewhere quarto lungometraggio di Sofia Coppola, aspira a riproporre in veste (se possibile) ancor più minimale i motivi già splendidamente sviscerati in Lost in Translation: la vacuità dell’essere e l’aridità emotiva che si accompagna al successo.
Per scelta anziché per costrizione professionale anche Johnny Marco, come Bob Harris/Bill Murray prima di lui, sperimenta gli effetti stranianti del non-luogo alberghiero ma l’alienazione non è più il prodotto dell’isolamento linguistico e geografico di una metropoli asiatica vista attraverso gli occhi di due americani turisti per caso: Johnny vive l’alienazione paradossale dell’uomo al posto giusto nel momento giusto. La Mecca del cinema non offre orizzonti di gloria per la star svogliata in cerca di un brivido notturno e tra i corridoi sovraffollati dello Chateau Marmont (non che in ascensore non si facciano incontri interessanti) la solitudine non potrebbe essere più abissale. Che si tratti di un hotel losangelino o di un dove assolutamente imprecisato (come suggerito dal titolo) non ha più molta importanza.
Sofia Coppola ci tiene a precisare come il suo film non sia il ritratto di una generazione di divi americani ma soltanto quello di un singolo uomo, eppure il senso effimero della celebrità trasuda da un’esistenza priva di complicazioni che non potrebbe essere più problematica.
Bob Harris sorseggiava whisky sorridendo senza felicità per uno spot milionario e Johnny Marco si presta allo stesso rituale ipocrita per il lancio del suo nuovo film: per entrambi la passione sembra essersi sgonfiata come un palloncino lasciandoli, privi di smalto, a contemplare la propria carriera dall’esterno, adattandosi a formalismi di rito. Formalismi come la conferenza stampa surreale, in cui l’idiozia dei giornalisti va a braccetto con la povertà intellettuale di Marco (incapace di formulare risposte plurisillabiche) o la cerimonia milanese dei Telegatti, in cui la Coppola, oltre a mostrare vividamente tutta la volgarità della televisione nostrana, rimette in scena frammenti autobiografici di un evento vissuto, bambina come Cleo, a fianco del padre.
Lo stile si coniuga al contenuto e la fissità della macchina da presa duplica la staticità del personaggio di Johnny, congelato nella ripetitività di una routine asettica, in cui ogni emozione sembra essere stata risucchiata nel vortice dell’apatia. La spoglia fotografia di Harris Savides non può che acuire il senso di vuoto di una realtà eraclitea, in cui tutto scorre ma nulla di consistente permane, se non qualche affetto isolato. E non è un caso che solo di fronte ai volteggi sul ghiaccio della figlia undicenne, Johnny, annoiato dalla vita al punto da addormentarsi tra le cosce di un’amante occasionale, riesca a ritrovare un barlume di joie de vivre.
Che cosa può offrire a Cleo quel padre-ragazzino che si diverte a giocare a Guitar Hero e a prendere il tè sott’acqua ma nell’unico momento in cui potrebbe confessare i propri errori getta le parole al vento, nel rumore assordante di un elicottero in partenza?
La pellicola di Sofia Coppola si gira un po’ intorno, senza una meta, esattamente come il suo protagonista, mescolando nevrosi, affetti riscoperti e una rinnovata consapevolezza. Al telefono con l’ex-moglie Johnny ammette il proprio fallimento umano ma dall’altra parte della cornetta non trova sostegno (non che a Bob Harris, consultato sulle scelte di tappezzeria, andasse poi meglio) e la lenta agonia della sua vita senza senso si sfilaccia in un finale talmente aperto da sembrare fin troppo scontato. O fuori da ogni interpretazione.
Il confronto con Lost in Translation è incombente e imprescindibile e non può che generare delusione in chi si vede servire di nuovo lo stesso piatto in salsa un po’ più insipida. Stephen Dorff, nonostante l’ottima performance, non ha il carisma né lo humour salace di Bill Murray in trasferta a Tokyo e già questo sarebbe sufficiente a marcare una differenza insormontabile. I dialoghi rarefatti, le lunghe pause, la camera immobile, non bastano a replicare lo stesso risultato e d’altra parte ci si potrebbe chiedere a che pro replicare un capolavoro.
Tra i silenzi contemplativi si insinuano le musiche originali composte dai Phoenix e una colonna sonora frammentata (si spazia dal rock all’hip-hop) da cui spiccano I'll Try Anything Once dei The Strokes (già presenti nella soundtrack di Marie Antoinette) e una ballata della buona notte suonata live dal cameriere dello Chateau Marmont, Romulo. Alle scelte musicali di miss Coppola, come sempre, tanto di cappello.
Tweet