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8/10

American Honey regia di Andrea Arnold

Drama
recensione di Fulvia Massimi

La diciottenne Star (Sasha Lana) si sottrae agli abusi sessuali e psicologici della famiglia adottiva in Oklahoma e si fa arruolare da un gruppo di coetanei venditori di riviste porta a porta, sotto la stretta sorveglianza della leader Krystal (Riley Keough). In un viaggio on the road attraverso il Sud degli Stati Uniti, Sasha scoprirà sulla propria pelle il valore della vita, dell’amore (per il venditore di punta Jake/Shia LeBeouf), e soprattutto della propria femminilità.

 

A differenza di registe mainstream interessate ad esplorare le dinamiche del mondo maschile attraverso gli stessi generi e stilemi dei colleghi uomini (Kathryn Bigelow come esempio lampante), la britannica Andrea Arnold ha l’encomiabile coerenza di chi si mette dietro la macchina da presa per raccontare senza reprimende le storie di ragazze e donne caparbie, capaci degli stessi gesti e della stessa violenza maschile pur di far valere la propria identità.

Fin dagli esordi con la trilogia di corti Milk, Dog e Wasp (premio Oscar nel 2003) Arnold ha saputo documentare gli aspetti più reconditi della condizione femminile nella società occidentale moderna e contemporanea, siano essi lo spunto per un romanzo inglese dell’Ottocento (Cime Tempestose, adattato nel 2011) o gli ingredienti di una tormentata odissea quotidiana. Madri single (Wasp), adolescenti abbandonate a loro stesse (Dog, Fish Tank) o vedove in cerca di vendetta (Red Road) popolano le opere di Arnold con estrema dignità, perfino o soprattutto quando devono battersi con crudeltà per sopravvivere in quell’acquario di squali che è la vita.

In questo quadro si colloca, letteralmente, American Honey, opera ultima della filmmaker e prima ad essere girata interamente negli States. A Cannes 2016, dove ha ottenuto il Premio della Giuria, il film di Arnold gareggiava in concorso a fianco del franco-canadese Xavier Dolan (Grand Jury Prize con Juste la fin du monde), di cui non solo condivide il rifiuto delle identity politics festivaliere (“Non vorrei che i miei film fossero selezionati solo perchè sono una donna,” spiegava a Cannes 2012) ma riprende anche il formato 1:1, sdoganato nel 2014 da Mommy. Il quadrato, anche se statico, torna a significare a livello tematico l’imprigionamento degli strati più bassi e dimenticati della società (in questo caso l’America white trash), e a livello stilistico l’ibridazione della ritrattistica pittorica con la composizione fotografica à la Instagram.

Il piglio documentaristico della regia arnoldiana si esplicita proprio all’interno di questa forzatura formale, che insieme contiene e deflagra il senso di libertà fisica, emotiva e sociale ossessivamente agognato dalla sua protagonista, interpretata con sensazionale spontaneità dall’esordiente Sasha Lane. La lettura dell’aspect ratio 1:1 come traduzione visiva del mondo social dei millennials (i giovani nati negli anni 2000) serve dunque a comprendere il carattere etnografico del film di Arnold, la cui rappresentazione della Generazione Y passa non solo attraverso la costruzione geometrica dell’inquadratura, l’insistenza del primo piano, l’uso di una camera mobile, e l’improvvisazione recitativa, ma anche l’impianto sonoro di una sountrack che sembra lo shuffle di una playlist hip hop su Spotify. 

Il paragone narrativo più ovvio si impone tuttavia non già con Mommy, quanto piuttosto con il capolavoro venerato-detestato di Harmony Korine, Spring Breakers, seppure con un caveat abissale. Laddove la provocazione kitsch di Korine coglieva la traiettoria discendente di quattro collegiali sbandate verso l’inferno della perdizione attraverso la presenza autoriale di un obiettivo fortemente maschile e voyeuristico, American Honey racconta il viaggio di formazione femminile accorciando all’inverosimile la distanza tra la macchina da presa e la soggettività della sua protagonista, al punto da rendere le due perfettamente coincidenti. 

A differenza del James Franco pimp di Spring Breakers, il personaggio di Shia LeBeouf—che pure lo interpreta con consueta sbruffoneria e convincente fragilità—non raggiunge gli stessi abissi di follia senza ritorno, e funziona piuttosto da sprone per Star e la sua presa di coscienza individuale. La fotografia di Robbie Ryan, fedelissimo di Arnold fin da Wasp, avvolge allora la drammaticità del reale in una luce morbida e sensuale, che attinge al lirismo naturale più che all’artificialità urbana, e fa da corrispettivo visivo all’interiorità della protagonista. Rivelazione amorosa e maturazione sessuale si impastano in un racconto di scoperta di sé che é anche riscoperta di un Paese dimenticato, osservato da un finestrino e scandito dalle liriche del cantore della working class americana Bruce Springsteen e della country band Lady Antebellum (di cui la canzone del titolo).

È una storia, quella sceneggiata da Arnold, che non stigmatizza ma cerca di comprendere e accettare, di mostrare empatia verso chi si batte per sopravvivere (i giovani venditori) e disprezzo verso chi invece vorrebbe lucrare sull’ingenuità altrui (Krystal in primis, ma anche tutti gli archetipi di virilità frustrata che Star incontra sulla sua strada). Una storia che si dipana con coesione narrativa e stilistica, dipingendo un quadro lungo 162 minuti che pure sembrano esaurirsi troppo presto nella speranza lasciata dall’ultimo frammento di rinascita battesimale.

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