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8/10

La vie d'Adèle regia di Abdellatif Kechiche

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

Adéle (Adèle Exarchopoulos), studentessa di letteratura al liceo Pasteur di Lille, è ancora alla ricerca della propria sessualità quando una sera, in un bar gay, incontra per caso Emma (Léa Seydoux), un’affascinante pittrice dai capelli blu che le farà scoprire l’erotismo e l’amore, in una storia lunga sette anni e vissuta molto, forse troppo intensamente.

 

Per due volte in concorso a Venezia – nel 2007 con Cous Cous e nel 2010 con Venere Nera – Abdellatif Kechiche era tornato a casa a mani semi-vuote, apprezzato dalla stampa e riconosciuto dalla giuria, ma mai insignito del Leone d’oro. Per la prima volta in competizione a Cannes, il regista tunisino conquista in un colpo solo FIPRESCI della critica e Palma d’oro. Un risultato su cui interrogarsi? Forse. La rivalità tra i due festival cinematografici più prestigiosi al mondo, d’altronde, non è certo un mistero, e domandarsi se ci sia una logica perversa dietro l’assegnazione dei riconoscimenti più ambiti, quantomai lecito. Speculazioni a parte, non si può tuttavia negare che l’ambiziosa ultima fatica di Kechiche, La vie d’Adéle (179 minuti divisi in due capitoli non segnalati e aperti al sequel), sia un’opera di tutto rispetto, e non solo in un’ottica strettamente festivaliera.

Quella del “film da festival” è infatti una categoria tutt’altro che leggendaria, e non capita di rado che pellicole presentate – e perfino premiate – ad una kermesse d’alto livello finiscano nel dimenticatoio, mai distribuite nelle sale o ricordate soltanto dal trafiletto di qualche critico solerte, affannatosi a registrare con precisione alessandrina le presenze e i risultati del concorso in questione. L’opera di Kechiche, però, non corre  il rischio di fare la stessa fine:  sorretto dal prestigio della Palma e dall’hype generato dalle scene saffiche ad alto coefficiente d’erotismo (non simulato) tra le splendide protagoniste Léa Seydoux e Adéle Exarchopulos (vera rivelazione del film), La vie d’Adéle promette infatti di conquistare il pubblico internazionale con la “nobile semplicità” del suo sguardo sul mondo, e con il carattere universale dei sentimenti in esso esplorati.

Quattordici anni sono trascorsi dall’assegnazione della Palma d’oro per il miglior film a Rosetta dei fratelli Dardenne, eppure il neorealismo della messa in scena firmato dai registi belgi nel 1999 (e mai abbandonato sia nei lavori precedenti che in quelli  successivi) non pecca d’anacronismo, né cessa di affascinare le giurie francesi. Seppur con le dovute differenze, il film di Kechiche recupera infatti nello stile, così come nei contenuti, l’indessicalità della rappresentazione del reale propugnata dalla filmografia dardenniana, ispirandosi al graphic novel di Julie MarohLe Bleu Est Une Couleur Chaude(adattato per il cinema dallo stesso Kechiche con Ghalia Lacroix), per raccontare l’evoluzione dell’amore lesbico tra la diciassettenne Adéle e la studentessa d’arte Emma.

La scelta pressoché costante del dettaglio e del primo piano, e più in generale la predilezione per piani molto stretti e per una macchina da presa insistente e onnipresente, costantemente attaccata ai corpi dei personaggi che indaga con perizia anatomica, non può che riportare alla mente la prepotenza dell’occhio cinematografico nel vivisezionare la tragica routine dell’adolescente Rosetta nella pellicola omonima. La “vita di Adéle” – citazione esplicita fin dal titolo di quella Vie de Marianne  scritta e mai completata da Pierre de Marivaux nella prima metà del ’700 (e su cui le lezioni di Adéle si focalizzano all’inizio del film) – è forse meno drammatica nelle premesse, e in parte anche nelle conclusioni, da quella della Rosetta dardenniana, ma il concetto di cinema presentato da Kechiche non ne diverge in modo sostanziale.

Il piglio documentaristico – seppur intriso di estrema sensualità e coinvolgimento empatico – si manifesta nelle lunghissime scene di sesso (la prima di quasi sei minuti) al limite del soft-core d’autore, dettagliate nonostante l’uso di “protesi genitali” e a tratti estenuanti non solo per le protagoniste. La carnalità della relazione tra Adéle ed Emma – elemento chiave, fino all’ultimo, del rapporto fra le due donne e della sua (potenziale) sopravvivenza – viene esplorato senza remore, e con un’encomiabile ricerca di realismo non stereotipato, che alla frenesia sincopata del sesso affianca un trasporto emotivo travolgente, splendidamente incarnato dal personaggio multiforme di Adéle e dalla sua magnifica interprete (la cui performance avrebbe tranquillamente meritato il riconoscimento attribuito a Bérénice Bejo).

La fisicità audace imposta dal ruolo non è infatti la sola difficoltà esperita dalla Exarchopulos durante un’interpretazione lunga più di tre ore, nella quale Adéle sperimenta un progressivo susseguirsi di cambiamenti e trasformazioni, pressoché impercettibili a livello di narrazione (il montaggio a sedici mani di Ghalia Lacroix, Albertine Lastera, Jean-Marie Lengelle, Camille Toubkis è volutamente lineare e privo di didascalie e indicazioni temporali), ma evidenti all’occhio dello spettatore proprio grazie al cangiantismo della performance offerta dall’attrice greco-francese. E non da meno è la modella Léa Seydoux, il cui ruolo non può essere ridotto alla stravaganza aliena del cromatismo che dà il titolo (internazionale) al film, ma la cui capacità di vivere apertamente, e forse per questo più dolorosamente, il sentimento che la lega ad Adéle, ne fa il personaggio più interessante dal punto di vista propriamente queer.

«L’amore non ha gender», dice uno sconosciuto ad Adéle nel bar gay in cui la trascina l’amico Samir, ma il concetto di un amore libero dai pregiudizi e dalle restrizioni non ha lo stesso significato per l’incerta protagonista, il cui sentimento resta sincero, potente e univoco fino alla fine, ma la cui (bi)sessualità non risponde di conseguenza, indirizzandosi verso la soddisfazione di un impulso vorace e continuo, piuttosto che alla razionalizzazione delle scelte compiute. Kechiche costruisce una narrazione intensa e consistente, massiccia nella portata filosofica (sartriana) delle sue riflessioni nonché nella voluminosità della sua estensione temporale, ma il cui nucleo essenziale (ed esistenziale) è poco più di un canovaccio: inizio, sviluppo e morte di una storia d’amore, o meglio, di un amore al primo sguardo, quando due passanti si sfiorano per strada ma non si perdono di vista (come accadeva invece nella Marianne di Marivaux).

Il senso di Kechiche per il queer si innesta dunque sul racconto standardizzato di un’evoluzione sentimentale, a cui la natura omosessuale del desiderio offre l’opportunità di differire da una traiettoria altrimenti inflazionata. I riferimenti all’ostracismo individuale (le odiose compagne di classe, omofobe senza ragione) e sociale (la contrapposizione schematica tra le famiglie delle due protagoniste, l’una “conservatrice” e l’altra “progressista”) vengono proposti en passant, senza eccessiva insistenza, mentre il fulcro della narrazione resta l’esplorazione viscerale delle dinamiche di coppia: il coinvolgimento assoluto e totalizzante, le ambizioni sbilanciate, i cedimenti, le scelte sbagliate, il dolore come una marea, che travolge e sconquassa il corpo e l’anima.

Nel silenzio accecante dell’assenza di musica (sporadiche le concessioni alla colonna sonora) e nella luce ruvida ma avvolgente del reale, fotografato dal fedele Sofian El Fani quasi in presa diretta, la vita di Adéle finisce dunque per rappresentare la vita di chiunque abbia amato e sofferto per amore, a prescindere dal sesso e dal genere del suo amante. Una vita che non può essere  tuttavia riassunta in un centinaio di minuti, o in un paio di capitoli, e che potrebbe protrarsi a lunghezza naturale, come auspica la continuazione annunciata da Kechiche. Si potrebbe assistere per ore all’esistenza di Adéle, al suo scorrere perpetuo comune a tutti i mortali, così come si sarebbe potuti restare in sala in eterno a guardare la grande, grandissima bellezza raccontata da Paolo Sorrentino. E si può dire allora che quello di Kechiche sia davvero il film migliore del 66esimo Festival di Cannes? I termini di paragone sono ancora troppo esigui per farlo, ma la lotta, almeno, si prospetta durissima e appagante.

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alexmn 9/10
Upuaut 9/10

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