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R Recensione

8/10

Post Mortem regia di Pablo Larrain

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

1973, Cile. Mario Carnejo, funzionario presso la morgue di Santiago, inizia una relazione con la dirimpettaia Nancy Puelma, ballerina con disturbi alimentari. Il golpe dell’11 settembre mette il Paese in ginocchio e i cadaveri cominciano ad affollare l’obitorio: Mario, la collega Sandra e il bellicista dottor Castillo saranno i soli testimoni civili della morte di Salvador Allende. Ma sul tavolo mortuario arriverà anche il corpo di Nancy.

Grande escluso dalla giuria e grande favorito della critica alla 67esima Mostra del Cinema di Venezia (Maurizio Porro lo ha definito “l’anti-Tarantino”), Post Mortem di Pablo Larraìn racconta con crudo minimalismo l’oscurantismo cileno degli anni ’70, portando i toni espressionistici dell’Argentina premio Oscar di Campanella ad uno stadio superiore di sintesi e orrore silenzioso. Le ferite storico-sociali non conoscono prescrizione e si imprimono nel DNA con un salto generazionale: Pablo Larraìn, classe 1976, all’epoca dei fatti narrati non era ancora nato, eppure, a trent’anni di distanza dalle atrocità della dittatura di Pinochet, sente il bisogno di rendere il giusto tributo alla verità.

Autopsia di una nazione: Larraìn conduce con la perizia di un coroner l’esame interno (negato ad Allende) del Cile, osservandone la deriva attraverso gli occhi di un protagonista ignavo e mediocre, così abietto da non meritare alcuna compassione. Lo fa spogliando la messa in scena di ogni ingombro superfluo e firmando una sceneggiatura estremamente parsimoniosa, con dialoghi ridotti al minimo e uno spunto thrilleristico che vira presto verso l’orrore nella sua forma più asettica.

Un carro armato in marcia sulla città deserta apre la pellicola come un presagio ma Larraìn si guarda bene dal mostrarlo di nuovo: il momento di deflagrazione della guerra è solo rumore assordante che Carnejo non riesce a cogliere, se non troppo tardi. I corpi consunti di Nancy e Mario (impeccabili Castro e la Zegers), disperatamente uniti in un amplesso desolato – reso ancor più angosciante da una macchina da presa che si incolla alla carne con voyeurismo soffocante (e paradossalmente straniante) – riflettono lo squallore di una realtà alla deriva, precipitata in un’inesorabile discesa verso la follia ufficializzata.

Buttati gli uni sugli altri senza ritegno, i morti si ammassano nei corridoio dell’obitorio e ogni tentativo di salvezza è vano. Tutti guardano e nessuno protesta: l’indignazione viene zittita a colpi di pistola e il flebile lamento che si leva dal mucchio umano non riaccende alcuna speranza. Intorno al morto illustre si schiera un coro di divise silenti, ma non è il cranio scoperchiato di Allende a suscitare terrore, né la fredda analisi del coroner: la paura è in chi si rifiuta di contraddire il regime e si fa complice, con il proprio silenzio, di una menzogna. Suicidio, omicidio, non sarà dato saperlo.

La camera fissa di Lorraìn, così come il minimalismo della mise en scène,  amplificano il mutismo e la vacuità morale dei suoi personaggi. Inquadrature à la Fassbinder colgono spazi costantemente delimitati, senza via d’uscita, e Carnejo – emblema di quel popolo connivente che non si compromette con la propria ignavia – ne resta intrappolato, incapace di progresso. Sporca e spoglia, la fotografia di Sergio Armstrong declina dall’illuminazione esageratamente artificiale delle primissime scene al buio opprimente e quasi totale delle ultime, acuendo il senso di miseria che circonda l’inutile esistenza di Carnejo. Ossessionato da un amore non ricambiato (se non per puro profitto), l’uomo si spingerà fino al gesto di lucida crudeltà che riempie l’insostenibile inquadratura finale, dando un senso ai frammenti prolettici anticipati dall’ambiguo montaggio di Andrea Chignoli.

La scelta di ridurre la pellicola ai suoi elementi minim(al)i valeva anche per Somewhere di Sofia Coppola, in cui inquadratura fissa e sintesi verbale non si ponevano però al servizio di contenuti così potenti da essere completamente autonomi, come nel caso di Post Mortem. Il verdetto veneziano resta dunque incomprensibile.

 

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misterlonely (ha votato 9 questo film) alle 21:45 del 9 maggio 2013 ha scritto:

il vincitore morale di Venezia 2010