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4/10

Shelter - Identita  Paranormali regia di Måns Mårlind

Thriller
recensione di Cristina Coccia

Cara, una brillante psichiatra convinta delle proprie idee, inizia a mettere in dubbio tutte le sue convinzioni e la sua fede nella scienza quando il padre, il dottor Harding, le dà l’occasione di occuparsi di un interessante caso di personalità multipla. Si tratta di David Bernburg, un giovane sulla sedia a rotelle (con tre vertebre cervicali saldate insieme), arrestato per vagabondaggio, che, sorprendentemente, può alzarsi tranquillamente in piedi e camminare, quando assume l’identità di Adam Saber. Ma le personalità del suo paziente non sono soltanto due e Cara finisce in un misterioso intrigo che la porta ad affrontare i suoi dubbi e le sue inconfessate paure.

Esiste realmente la sindrome da personalità multipla? La protagonista di Shelter inizia a domandarselo già dalla prima, inquietante scena. Poi il dubbio comincia ad assumere una forma più definita: “Qual è la differenza che passa tra una personalità multipla e una delirante?”  Ecco che lo script prende un’altra strada e il delirio sembra essersi impossessato anche del bravo sceneggiatore Michael Cooney, che si era dimostrato capace di creare pellicole come Identità, un thriller intenso e coinvolgente fino all’ultima scena, che richiamava sapientemente alla memoria Agatha Christie e i suoi Dieci piccoli indiani. Così, ben presto, lo spettatore si accorge che, innestando la psichiatria con la simbologia, con i riti magici, con improponibili guaritrici e con sette sataniche, si dà origine ad un miscuglio indigesto che sfocia un po’ troppo spesso nell’horror e nel ridicolo. Ci si ritrova all’interno del dilemma tra scienza e fede e non si sa come si è giunti sino a questo punto, tutto sembra buttato lì per creare confusione e nulla viene risolto in maniera ordinata e soddisfacente, ma si perde troppo in fretta in un finale che sembra preso da uno splatter di basso livello.

Ci sono interessanti spunti narrativi che si perdono nella banalità e nei sentimentalismi. Il titolo stesso è già troppo esplicito: si parla di un rifugio in cui viene esiliato, dal 1918, lo spirito di chi perde la fede cedendo alle lusinghe della scienza e allontanandosi da Dio, ma l’intera trama viene appesantita da riferimenti simbolici confusi, che restano senza approfondimento, affiancati dai consueti espedienti per terrorizzare lo spettatore. Ci vengono proposte le solite ombre che appaiono in filmati registrati, anziane signore avvizzite che recitano nenie con voce demoniaca, serpenti a cui viene sottratto il veleno per scopi terapeutici, croci impresse sulla pelle come stigmate per marchiare i corpi dei peccatori e improvvise apparizioni di oscure presenze che inseguono gli sventurati di turno.

La brava Julianne Moore sa tenere in piedi uno script zoppicante e inconcludente, tratteggiando un personaggio prima sicuro di sé e poi impaurito, terrorizzato e, infine, disposto a credere a qualunque cosa. Purtroppo la sua psichiatra, nonostante sia ben interpretata, resta troppo ripetitiva nella seconda parte della pellicola, non eccelle né per originalità, né per tragicità, ma resta, nonostante tutto, superiore al personaggio di Jonathan Rhys Meyers, un infernale emarginato che riesce ad essere soltanto un po’ inquietante, ma sicuramente non spaventoso né tantomeno tormentato. Lo spirito demoniaco si manifesta, in lui, nel modo più banale possibile: sfoggia uno sguardo vitreo, cupo e dannato, contorce il collo, scatenandosi in un repertorio di spasmi e svenimenti. Da lui ci aspettavamo decisamente di meglio!

Resta, invece, da valutare la pregevole fotografia di Linus Sandgren, ancora poco conosciuto, ma sicuramente destinato a fare strada. Nelle sequenze si notano una luce sinistra, molti interni scuri ed un’ottima scenografia, che crea atmosfere angoscianti, risultato di scelte stilistiche particolarmente adatte al contesto, dalle quali emerge una peculiare abilità nel regolare con padronanza la distanza di ripresa e le variazioni di punto di vista. Una nota a favore va anche a flashback e scene ambientate nel 1918.

In sintesi, si va a vedere Shelter per assistere ad un promettente thriller psicologico e ci si trova invischiati in un horror grondante di inutili riferimenti pseudo religiosi, che diventa sempre più prevedibile, scendendo ad un livello vergognosamente basso. Ci si aspettava di più da un film che vorrebbe addirittura omaggiare Romero (con un manifesto de La notte dei morti viventi), ma che non dice nulla di nuovo; si esce dalla sala con il dubbio che esistano entità ultraterrene che agiscono oltre le nostre percezioni spaziali e temporali, ma adesso un nuovo dubbio ci assale: non si poteva arrivare alla stessa conclusione in maniera un po’ più originale, magari senza eccedere nei tempi e abbandonandosi di meno alla monotonia? Speriamo di poter vedere qualcosa di più intrigante, in cui anche Cooney possa far valere di più le sue doti di sceneggiatore.

 

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