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7/10

Senza Arte Ne Parte regia di GIOVANNI ALBANESE

Commedia Italiana
recensione di Fulvia Massimi

Licenziati dal pastificio in cui lavoravano e sostituiti con dei robot, Enzo, Carmine e Bandula cercano un modo (onesto) per sbarcare il lunario. Riassunti dall’ex-datore di lavoro per fare la guardia alle sue costose opere d’arte contemporanea, i tre operai si improvvisano falsari ma la truffa sfuggirà loro di mano, trascinandoli in una (tragi)comica (dis)avventura.

Il notaio collezionista (compulsivo) che rimane estasiato di fronte al falso uovo di Manzoni sarebbe certamente piaciuto a Elmyr De Hory, il grande falsario ritratto da Orson Welles nella sua opera ultima: F for Fake, capolavoro meta filmico che sul dissidio tra realtà e finzione imposta un gioco di specchi non meno disorientante di quello de La Signora di Shanghai.  

Giovanni Albanese, cineasta e artista contemporaneo (sarà presente nel Padiglione Italia della prossima Biennale), depura il suo secondo lungometraggio dalle sofisticherie meta cinematografiche wellesiane ma conserva intatta la riflessione sul vero e il falso in arte (e nella vita), punto di partenza per la realizzazione di una commedia sociale che alla farsa de La Banda degli Onesti preferisce il Ken Loach de Il Mio Amico Eric e trae ispirazione da certo cinema inglese realistico, socialmente impegnato ma soprattutto divertente. La formula è la stessa degli “squattrinati organizzati” di Full Monty: un gruppo di (sotto)proletari che, presi dalla disperazione, rispolverano l’antica e intramontabile arte dell’arrangiarsi (dell’essere, appunto, “senza arte né parte”):  a differenza degli spogliarellisti improvvisati di Sheffield, però, gli operai salentini del Pastificio Tammaro puntano in alto e all’arte volgare (nel senso latino del termine) dello strip-tease oppongono quella, nobilissima, dell’Arte con la A maiuscola.

Affascinato dal contrasto stridente tra il mondo socialmente basso dei suoi protagonisti e quello elitario dell’arte contemporanea, Albanese lo esplora con simpatia, alla ricerca di un linguaggio comune che trova nella creatività artigianale il perfetto trait d’union. Nell’epoca della sua riproducibilità tecnica l’arte si fa con materie prime da mercato rionale ribattute all’asta a carissimo prezzo e, tra piatti rotti, spazzoloni e rosette imbiancate, è più alla portata di lavoratori inesperti (la “beffa di Livorno” è un precedente troppo “professionale” per essere preso a esempio dal regista) ma nemmeno troppo. Gli operai di Albanese, galvanizzati dal semplicistico ritornello del “questo potrei farlo anch’io”, scoprono con sorpresa le difficoltà nascoste dietro un taglio nella tela (i Concetti Spaziali di Fontana creano non pochi problemi a Salemme), arrivando infine a comprendere la morale della contemporaneità artistica – cinicamente riassunta dal gallerista Nanni Bruschetta: è l’idea che conta, non il manufatto ed è il martelletto dell’asta a sancirne la “verità”. Perché veri sono i soldi, veri i compratori e, di conseguenza, vere le opere.

Sceneggiatore ultra-prolifico (otto gli script portati sul grande schermo dal 2007 ad oggi), Fabio Bonifacci accetta la scommessa di una commedia in grado di raccontare il Sud e la precarietà dell’Italia in Crisi senza banalità e malinconia ma con grande rispetto e leggerezza. La coralità – necessaria, secondo Salemme, a rendere il “gioco di squadra” della squinternata banda di protagonisti – risulta vincente. A prescindere dall’importanza dei ruoli (per Sonia Bergamasco e Paolo Sassanelli poco più di un cameo) gli attori si prestano, divertiti e divertendosi, alla commedia intelligente, portando sullo schermo l’affiatamento del set: un Battiston in grandissima forma (fisica e attoriale) sembra accogliere la sfida lanciata su Ciak da Mereghetti, aggiungendo al consueto ruolo di “tontolone paziente” un piglio irascibile e un atteggiamento da playboy gentiluomo, ma è Vincenzo Salemme ad interpretare il personaggio su cui la forza dell’arte agisce in modo più drastico, trasformandolo in leader dall’inaspettata sensibilità estetica. 

Nella cornice salentina di Palmariggi Albanese trova la location ideale per ambientare il dramma dei suoi protagonisti, una “tragedia che è spesso fonte di una comicità vera e disperata”. Fermamente convinto che etica ed estetica debbano andare a braccetto, il regista (pugliese di nascita ma romano d’adozione: le due realtà geografiche convivono nel film) rifiuta un virtuosismo stilistico poco consono alle finalità della commedia per sposare un realismo quotidiano, onesto e indiscutibilmente vero, a differenza di tutto il resto, minato dalla finzione della messa in scena (è il caso delle “prove” per la contro-rapina romana e dell'esilarante tentativo di seduzione omo-sessuale). Il rispetto di Albanese per i lavoratori e per il loro mondo si sposa con quello dimostrato dai personaggi per gli artisti (esplicitamente citati) e per la loro arte, maneggiata con curiosità infantile ma anche con riguardo. A riconferma del fatto che titoli di studio e un nutrito conto in banca non costituiscono un antidoto all’ignoranza, a fare peggior figura sono proprio coloro che si professano estimatori ed intenditori d’arte salvo poi rivelarsi semplici “accumulatori” che dei cavalli di Kounellis fanno (ridicola) esibizione nel salotto di casa.

Picasso (e Welles con lui) sosteneva che "l'arte è una menzogna che ci fa capire la verità": non potrebbe esserci chiosa migliore per la bella commedia umana di Giovanni Albanese.

 

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dalvans (ha votato 5 questo film) alle 12:00 del 21 ottobre 2011 ha scritto:

Mediocre

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