A MilanoFilmFestival – Secondo report 18-22 settembre

MilanoFilmFestival – Secondo report 18-22 settembre

 

C’è sempre un’emozione insolita che trascina ogni anno lo spettatore del Milano Film Festival. Sarà quell’eccitante connubio tra il cinema grezzo delle opere prime e seconde di giovani filmmakers italiani e internazionali – dove, con il termine “grezzo”, non si vuole in alcun modo sminuire il valore che accompagna questi piccoli capolavori, quanto apprezzare la loro semplicità e la loro voglia di farsi conoscere ad un pubblico ancora estraneo alle loro doti straordinarie - e il cinema di autori noti, che non storcono il naso ad affiancarsi a giovani talenti, ma anzi si pongono entusiasti come possibili maestri e mentori delle nuove leve della settima arte. Sarà l’entusiasmo che si respira tra i tanti appassionati di cinema, addetti ai lavori e semplici amateur, che rendono il Milano Film Festival un’occasione imperdibile per gustare film – tra corti e lunghi – di rara bellezza e intensità, spesso lontani dalle logiche mainstream.

In questa seconda settimana di festival, sono state tante le possibilità di imbattersi in momenti di cinema di alto livello, tra i cortometraggi – cuore pulsante del Milano Film Festival, di cui vi proponiamo una piccola selezione – e i lungometraggi, tra film in concorso e quelli inseriti nelle sezioni e rassegne speciali.

Martedì 18 settembre, nel Gruppo I, abbiamo potuto assistere a quattro piccoli film davvero eccezionali: siamo partiti con Silent Pig, un cortometraggio dal retrogusto grottesco, a firma del giovane regista cinese Chen Peng presente in sala e disponibile a rispondere alle curiosità degli spettatori.

Dedicato al grande scrittore di La fattoria degli animali George Orwell (di cui si assapora la sottile metafora dell’uomo di potere ritratto come un maiale), Silent Pig è una forte denuncia nei confronti della manipolazione che i media – in particolare quelli cinesi, a detta dello stesso regista – attuano nei confronti delle immagini e delle notizie di cronaca. Girato con la tecnica dello split-screen (a detta del regista, the better way to see the same things in different ways), assistiamo ad una vera e propria bulimia di immagini, che si contrappone alla ferocia della manipolazione, di quella politica del taglia e cuci, a piacimento dei dispensatori di notizie. E pensare che Silent Pig nasce come progetto scolastico… Il secondo corto del gruppo è Kendo Monogatari del regista Fàbian Suàrez: il film – punteggiato da un melanconico violoncello – è la messa in immagini del desiderio di evasione di una parrucchiera cubana di mezza età, intrappolata nella routine della sua vita, ma da cui però non ha il coraggio di scappare. Ed è così che, mentre il suo migliore amico con coraggio oltrepassa la cortina e vola verso il sogno americano, la protagonista trova la felicità in un corso di kendo su cassetta, un piccolo spazio esotico per riuscire a resistere al vuoto pneumatico della vita quotidiana.

Il terzo corto della giornata è stato Lack of Evidence della regista coreana Hayoun Kwon (presente in sala a questa proiezione), un interessante esperimento di cinema a tecnica mista. È la storia di due giovani gemelli africani, di cui uno muore per sfuggire agli uomini del padre che voleva sacrificarli, come previsto dal codice tribale. Il tema sotteso a Lack of Evidence è molto esplicito: si affronta, infatti, il doloroso problema delle frontiere (aspetto molto caro alla stessa regista, in quanto per prima vive in Francia lontana dalla sua terra natìa), il dover scegliere dove vivere per sopravvivere alla violenza e alla repressione del proprio Paese d’origine. Ciò che colpisce e che rende prezioso questo corto è la scelta di affidare all’animazione 3D – per sua natura artificiale e fittizia – il racconto di una storia vera, reale, il cui fulcro è la mancanza di verità: Oscar, il giovane protagonista della storia, non viene creduto quando chiede asilo in Francia, e la sua memoria di bambino – quella in cui ricostruisce la fuga dal suo Paese insieme al fratello – è dunque impalpabile; e per questo, infatti, che la regista ha deciso di utilizzare un mix tra cinema documentario e animazione, per rimarcare l’impalpabilità di una storia fondata su di una memoria sfocata.

A chiudere la rassegna del giorno, il delizioso Mousse di John Hellberg, corto surreale in salsa nordica volta a sottolineare la dimensione di tempo e di spazio sospesa nelle fredde terre del Nord Europa, che neanche un tentativo di rapina riesce a scalfire.

Mercoledì 19 settembre, nell’affascinante cornice del Teatro Strehler, abbiamo potuto godere di un’altra tornata di corti, quelli del gruppo H, tra cui spicca uno dei pochi italiani in concorso. Si tratta, infatti, di L’esecuzione del giovane regista Enrico Iannaccone, dove, sullo sfondo di una città campana nella morsa della camorra, si riflette sul tema degli affetti, della coscienza e della violenza. Un giovane – caduto nelle spire della malavita, di cui ha incarnato usi e costumi – non riesce ad accettare la malattia che divora giorno dopo giorno la madre, finché non decide di compiere l’unico gesto che gli permette la fuga: il suicidio. L’esecuzione non vuole essere il solito film sulla malavita (come ha tenuto a precisare lo stesso Iannaccone, presente in sala dopo la proiezione), ma anzi un’occasione per riflettere su quanto la violenza posso mutare l’essere umano e di conseguenza i suoi legami affettivi, e ci riesce efficacemente senza giri di parole.

Ma senza giri di parole è anche la commedia dolce-amara La prima neve del regista Michael Lalancette. Giunti al capezzale paterno, quattro fratelli, da tempo in disaccordo, dovranno decidere chi di loro donerà il proprio rene al padre ammalato. Ma nessuno di loro, tradito dal padre per un motivo, sembra intenzionato a finire in sala operatoria, tanto che di comune accordo, guardando la prima neve, decidono di lasciare il padre al proprio destino e ritrovare l’affetto fraterno da tempo accantonato. Tagliente e decisamente not politically correct, La prima neve è un film che riflette sulla tragicità della vita, e della paura dell’essere umano di fronte ad un tema corposo come quello della morte.

Altro corto pregiato è Horizon di Paul Negoescu, basato sulla leggenda del pescatore Jona, divorato da una balena. Horizon è una pellicola molto diversa rispetto alle precedenti del regista: si presenta come un corto senza dialoghi, ambientato in spazi aperti e contornati dalla natura. Contemplativo e delicato, il film di Negoescu è un modo per lasciarsi travolgere dall’estasi e dalla staticità della vita di un pescatore, e rimanere sospesi nell’incanto dell’orizzonte che, attraverso piani lunghi mozzafiato del Mar Nero, il regista ci restituisce con efficacia. Hermeneutics del regista Alexei Dmitriev è un incredibile film di montaggio, in cui, con cura e precisione, sono cuciti insieme spezzoni di film e pubblicità di propaganda americana e inglese. Il corto non si allontana troppo dai lavori precedenti di Dmtriev, che ama lavorare con materiale d’archivio in quanto – a sua detta – facile da reperire e facile da assemblare.

A chiudere il gruppo del giorno, un delicato corto animato realizzato in stop-motion dal titolo Oh Willy! di Emma De Swaef e Marc James Roels, che lascia negli occhi di chi guardia la magia e la leggerezza di una storia senza tempo. Ma il 19 settembre è anche la giornata di Chocò, lungometraggio diretto dal regista Jhonny Hendrix Hinestroza. Presentato nella sezione Forum della Berlinale 2012, Chocò è la storia di una giovane donna afro-colombiana, madre di due bambini e moglie di un uomo violento e fallito. Ma Chocò non molla: sorride alla vita, e la sua forza d’animo le permette di compiere, insieme ai suoi figli, il viaggio per eccellenza: quello verso la libertà e la felicità, da tempo negate, scappando dalla foresta incontaminata dove è nata e cresciuta. Ritratto agrodolce di una donna giovane e forte, Chocò è anche un’importante occasione per raccontare al pubblico internazionale una minoranza etnica sconosciuta, quella degli africani in Colombia, attraverso un percorso in bilico tra disperazione e speranza.

Tra gli eventi che hanno allietato il pubblico giovedì 20 settembre, segnaliamo senza dubbio il lungometraggio in concorso Song and Moon del regista cinese Wu Na, già premiato allo Student Film Festival di Londra 2012. La pellicola racconta l’estate della giovane Xing, in un villaggio sperduto tra le montagne del sud-ovest della Cina, alle prese con il primo grande amore della sua vita e con scelte importanti che la porteranno a compiere il grande passo dall’adolescenza all’età adulta. Suggestivo affresco della Cina rurale, Song and Moon è una pellicola intrisa di tradizione, che inevitabilmente si scontra con l’avanzare persistente della modernità, fatta di cellulari, sogni e speranze. Nuovo appuntamento con la rassegna dei corti, questa volta con quelli del gruppo K. Il primo è The Return di Blerta Zeqiri, presentato nel corso del Sundance Festival 2011, un duro e difficile affresco della vita di una giovane coppia, segnata dalla guerra del Kosovo e di cui ancora si subiscono le conseguenze, in una profonda e incolmabile ferita.

Di rara comicità è invece Living Together in Armony della timida regista Lucie Thocaven (presente in sala, ma che non ha voluto condividere con il pubblico una discussione sul suo lavoro, m solo per timidezza), un piccolo corto realizzato in tecnica mista, che riflette sulla rabbia – sentimento che sempre di più entra di prepotenza nella nostra vita quotidiana – e che ha strappato ben più di una risata in platea. Infine, A to A del regista austriaco Johann Lurt, un corto dedicato alle rotonde presenti sulle strade dell’Austria, connotate spesso da pseudo-sculture nel centro, a sua detta un modo curioso per mostrare i simboli della città, per mostrarsi ai turisti e di rappresentarsi. Un corto ben confezionato (sono in totale 90 inquadrature di rotonde, partendo da una raccolta di oltre 180 immagini), e sicuramente originale per raccontare gli usi e i costumi di un piccolo Paese come l’Austria.

Giornata da ricordare venerdì 21 settembre all’Auditorium San Fedele. Ad aprire la danze della giornata, uno dei dodici lungometraggi in concorso, il francese Tiens moi droit della regista Zoe Chantre, presentato in concorso nel 2011 alla Berlinale. Realizzato in tecnica mista con cura e precisione, Tiens moi droit è un diario personale che, attraverso la magia delle figure animate, racconta con delicatezza e ironia la malattia della Chantre, rendendolo quasi un suo tratto distintivo. A detta della regista, presente in sala alla proiezione, “il disegno era l’unico modo per esprimere il mio stato d’animo, il modo migliore per raccontare agli altri la mia esperienza”. Un prezioso cortometraggio dalla tecnica davvero particolare. A seguire, ci si è immersi nel cinema italiano degli anni ’80, con la rassegna Italia ’80 e il film La gentilezza del tocco di Francesco Calogero. Il film, un noir atipico ambientato nel mondo del giornalismo (ma dal punto di vista di un correttore di bozze, non di un giornalista), segna il ritorno in pompa magna del cinema italiano di quegli anni, all’epoca in fase creativa statica.

Presente in sala proprio Calogero, che ha raccontato animatamente la genesi della pellicola, scritto in appena quattro giorni, girato in nemmeno tre settimane e in 16 mm. L’influenza di un grande scrittore della letteratura moderna, Fernando Pessoa, si respira a più riprese all’interno del film, regalando un’atmosfera a tratti surreale senza precedenti. Uno dei momenti fondamentali della giornata è stata la proiezione di Il Giudice e il Segreto di Stato di Bruno Oliviero per la sezione Colpe di Stato. La pellicola – un duro documentario dal sapore d’attualità – ripercorre la extra-ordinary rendition di Abu Omar e il clamoroso scontro giudiziario ed esecutivo che ancora oggi è fatto di cronaca. Una denuncia fortissima, nei confronti degli equilibri precari della giustizia che attanagliano il nostro Paese.

Intensa la giornata di sabato 22 settembre nella cornice dello Spazio Oberdan di Viale Vittorio Veneto. Il primo film in proiezione è Turning di Charles Atlas e Antony, nella sezione The Outsiders. Il film – un affascinante documentario musicale, che ripercorre alcune tappe della suggestiva tournèe-performance del gruppo Antony & the Johnsons, curata dal video-artista Charles Atlas – è un’importante riflessione, attraverso tredici intensi ritratti, sull’identità dell’individuo, una riflessione sui cambiamenti (da qui Turning) che hanno forza catalizzante sugli uomini. Una pellicola catartica, accompagnata da una colonna sonora, la musica degli Antony & the Johnsons, che offre allo spettatore un’atmosfera semplicemente unica.

L’appuntamento successivo è stato il lungometraggio in concorso Le sommeil d’or, un documentario diretto dal regista cambogiano Davy Chou e rivelazione nella sezione Forum della Berlinale 2012. Attraverso le interviste ai protagonisti di allora, il film ci offre un ritratto di assenza dell’epoca d’oro del cinema cambogiano degli anni Sessanta e Settanta, cancellato e lacerato con l’insediamento della dittatura degli Khmer Rossi nel Paese. Un film senza dubbio nostalgico e che avvia una riflessione su quanto il cinema sia intrinsecamente legato alla storia e alla memoria di un Paese. Altra pellicola di spicco è certamente L’age atomique di Helena Klotz, nella sezione dei lungometraggi in concorso. Il film segue la notte di due adolescenti, Rainer e Victor, alla scoperta del loro intenso rapporto di amicizia e amore. Uno sguardo, quello della Klotz, che ha increspature poetiche e delicate, regalando al pubblico un eccezionale film dal tocco tenue.

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