A MilanoFilmFestival – Primo report 12-15 settembre

MilanoFilmFestival – Primo report 12-15 settembre

 

Domenica mattina a Milano, la semi-tranquillità – perché il tram sotto casa passa sempre – delle giornate con blocco del traffico, l’intontimento da poco sonno accompagna come ogni anno la partecipazione al Milano Film Festival. Tra poche ore inizierà la quinta giornata e il bollettino dalle prime quattro è il necessario momento di passaggio per non perdere sensazioni-e-ricordi delle tappe percorse.

Mercoledi 12 settembre, il cielo terso della mattina lascia il posto alla versione da-guerra-dei-mondi minacciando una tempesta che non tarderà ad arrivare. L’inganno mattutino, oltre al solito dimenticarsi delle previsioni del tempo, mi ha lasciato sotto la pioggia sprovvisto di ombrello, ma questa è un’altra storia. Coda veloce per il pass stampa e poi il tipico menù da Mff, panino salamella-peperoni-scamorza, birra e patatine. La promessa che come ogni anno verrà disattesa è quella di non ripeterlo, altrimenti altro che il documentario Supersize Me. Arrivo stranamente in anticipo al Teatro Strehler per l’apertura ufficiale del festival e del concorso lungometraggi. La sala si riempie, non del tutto perché è pur sempre mercoledi sera. Le 20.30 dell’inizio previsto sono ormai passate, mentre osservo la maschera intenta a preservare libera la fila centrale davanti alla mia, millantando posti riservati a-non-si-sa-chi: rimasti vuoti verranno poi occupati dai fortunati ultimi che arrivano in sala. Salgono sul palco i due direttori artistici Alessandro Beretta e Vincenzo Rossini, i più giovani tra i curatori di festival di un certo livello. Tema forte del pre-festival, ribadito all’inizio del loro discorso, è stata la polemica relativa ai tagli di budget, con un finanziamento pubblico che ammonta a circa 200.000 euro, pochi se si considerano i 12 giorni di durata. Stefano Boeri, assessore alla cultura del comune di Milano (che ha stanziato 150.000 euro del budget totale della manifestazione) ha commentato in modo poco diplomatico: “il contributo dello Stato è ridicolo, quasi offensivo, rispetto ad altri festival. Non è stata colta l'importanza dell'evento”. Aldilà di un ampio discorso sul finanziamento ai festival, non affrontabile in questa sede, è evidente come la qualità/portato dell’evento sia stata realmente sottovalutata. Dopo i dovuti ringraziamenti a comune e sponsor per aver creduto nell’evento e allo staff per la passione profusa senza soluzione di continuità, i due direttori hanno voluto sottolineare il grandissimo lavoro fatto per mantenere alta la qualità, l’ampiezza e la varietà dell’offerta.

Un programma molto articolato che, con qualche salto ad ostacoli tra incastri temporal-spaziali complessi, rinnova l’attenzione per il cinema indipendente e le produzioni più complesse e coraggiose. Fiore all’occhiello è la rassegna Italia ’80 – quando la televisione provò a mangiarsi il cinema: fatica-e-dedizione degli organizzatori hanno permesso di recuperare più di trenta titoli di un decennio erroneamente considerato buio per la nostra cinematografia. Gli autori e le realtà di valore (Ipotesi Cinema, Soldini, Salvatores, Nichetti, Agosti, G. Bertolucci,…) c’erano ed erano impegnate a reinventare un cinema che rischiava di adagiarsi sui fasti del passato. Una veloce panoramica sulle sezioni prima di invitare sul palco Randall Poster, l’immenso music supervisor che dal 1995 ha lasciato la firma in un centinaio di produzioni hollywoodiane e non di alto livello. Dopo la retrospettiva della scorsa edizione a lui dedicata, quest’anno Poster ritorna presentando una propria selezione di film di Woody Allen, il regista che forse più di tutti ha costituito per lui fonte d’ispirazione. Conclude il breve commento invitando il pubblico in sala a seguire tutte le sette proiezioni perché “la possibilità di rivedere i film del primo Allen sul grande schermo è davvero impagabile”. Poi è la volta di uno spaesato Ben Rivers, filmmaker e artista inglese, invitato sul palco a sua insaputa per introdurre la retrospettiva completa delle sue opere. Conosciutissimo all’estero, in Italia il suo nome è relegato all’elite della video-arte. “It’s time for Italy to see my films”, chiude un imbarazzato Rivers promettendo di arrivare preparato alla masterclass che terrà nel corso del festival.

Finalmente sul palco è la volta di Juan Andrès Arango, regista colombiano del primo lungometraggio in concorso La Playa D.C. Un film potente che racconta la storia di tre fratelli afro-colombiani che vivono a Bogotà dopo che la guerra per la coca ha costretto loro e migliaia di altre persone a emigrare dalla costa pacifica verso le grandi città. La loro è una lotta per la sopravvivenza tra emarginati in una città borderline che non li vuole. Violenza e speranza convivono ogni secondo nel cuore di chi cerca di non finire a fondo. Una buona dose di applausi chiude il dibattito finale tra pubblico e un regista molto disponibile al confronto. Se ne riparlerà più diffusamente in una recensione specifica.

Dalla temperatura gradevole della Milano notturna, al vento gelido che storicamente caratterizza le proiezioni a Parco Sempione: un prezzo da pagare per godersi uno schermo enorme, una cornice naturalistica suggestiva e le note di Gershwin sull’intro di Manhattan. Emozione difficile da descrivere, quel cine-brivido inconscio e viscerale che ti coglie quando sei di fronte a qualcosa di unico. Direi che non si poteva iniziare meglio.

La seconda giornata, fisiologicamente più debole, inizia con la riproposizione di Ladri di Saponette di Maurizio Nichetti: interessante come visivamente senta gli anni, anche per la peculiarità del mondo che racconta, mentre la storia e soprattutto l’idea creativa su cui si gioca il film (realtà, finzione e pubblicità che si mescolano senza soluzione di continuità) abbiano mantenuto la propria energia e l’intento critico non tanto verso la pubblicità in sé quanto verso la sua invasiva prepotenza. La programmazione a ostacoli mi costringe dopo solo mezz’ora ad abbandonare la sala per avviarmi verso Parco Sempione dove il festival mi regala la prima vera sorpresa. All’interno della rassegna Colpe di Stato, tra le più interessanti per l’impegno nell’affrontare l’attualità più scomoda con un taglio allo stesso tempo incisivo e accattivante, viene proiettato il documentario We are Legion: The Story of the Hacktivists di Brian Knappenberger. Tutto quello che avresti voluto sapere sul gruppo di ‘guerriglieri informatici’ di Anonymous ma non avete mai osato chiedere. Dalla viva-o-distorta voce dei protagonisti, armonie e disaccordi di quel mix di nerd-hacker che lottano per la libertà di espressione. La serata si chiude mestamente con il trascurabile Elles di Malgorzata Szumowska, già ottimamente recensito su questo sito dal collega Alessio Colangelo. Il film, fuori concorso come gli altri della sezione The Outsider, è un guazzabuglio di concetti inespressi e inutili provocazioni narrative, troppo per poter essere salvato dalla bravura di Juliette Binoche.

Venerdi è la prima giornata piena di festival, quella con tanti-troppi pezzi da novanta che costringono a scelte difficili, visioni posticipate o semplicemente a rinunce. Il pomeriggio, tra Spazio Oberdan (aka Cineteca Italiana) e lo storico Auditorium San Fedele di via Hoepli, vede il proseguimento della rassegna Allen, con Il Dormiglione e Hanna e le sue sorelle. Poi una meritata pausa per gli occhi sul sagrato del teatro Strehler con il concerto del cantautore Nicolò Carnesi, promessa che arriva direttamente dalla fiorente scena di Palermo, la stessa che ha partorito la splendida musica dei Dimartino. Testi che ricordano Battiato, De Andrè e l’onnipresente-musa Rino Gaetano, sonorità british a-la-Smiths: un ritratto di Robert Smith dei Cure realizzato da Tim Burton (citazione onnipresente quando si parla di Carnesi, una di quelle di cui non si capisce bene chi ne sia l’autore). Concerto interessante che conferma le ottime impressioni avute dall’ascolto del suo cd Gli eroi non escono il sabato (2012, Disastro Records, Malintenti Dischi) apprezzato anche da un pubblico che contava la presenza dell’egocentrico-di-talento Dente.

Errate scelte di logistica alimentare mi fanno perdere la proiezione serale di Io e Annie e di conseguenza la possibilità di vedere in toto la rassegna del regista newyorkese. Peccato perché le discussioni di Alvy Singer in coda per il cinema le avrei riviste volentieri in lingua originale. Appena il tempo per rielaborare il cine-lutto che si fanno le 22.30, orario d’inizio di Everybody in our family, lungometraggio in concorso del regista rumeno Radu Jude. Film davvero pazzesco. La storia è molto semplice: padre separato va a casa dell’ex moglie per prendere la figlia e andare con lei al mare. Arrivato trova la ex suocera e il nuovo compagno mentre la bambina è ancora a letto causa leggero malanno post viaggio. Tutto inizia a precipitare lentamente quando l’ex suocera lo invita a entrare in casa: da quel momento in poi un climax inesorabile porterà la situazione a degenerare in un tragicomico grottesco che fa impallidire la lite borghese di Carnage di Roman Polanski. Una costruzione narrativa solida, un protagonista credibile che regge quasi tutto il film su di sé, un montaggio visivo e sonoro che alimenta la tensione e la rende sempre più angosciante fino a farla esplodere. Sarebbe davvero un peccato non vederlo uscire in sala.

Il quarto giorno di festival vive all’insegna di Gabriele Salvatores, con una masterclass dove il regista napoletano e milanese di adozione racconta del suo modo di fare cinema con gli stessi occhi da eterno sognatore di sempre, quegl’occhi che sanno appassionarsi e appassionare, che guardano/raccontano storie, personaggi, vite vissute e immaginate. Uno sguardo in cui c’è tutto il cinema. Nello spettacolo serale, Salvatores pare emozionato quando presenta davanti a circa trecento spettatori il suo secondo film, il primo veramente cinematografico: Kamikazen – Ultima notte a Milano. Ironizza sul fatto che forse nell’87 il film venne visto da meno persone di quelle presenti a questa proiezione – non erano anni facili per il cinema italiano – e si augura che ognuno, anche quelli che stanno a guardare il film solo per pochi minuti passando per il parco, possa far propria la storia. Sei giovani comici in cerca di fama si barcamenano in una Milano notturna, tra amicizie, amori fedifraghi e sovrappeso, ansia da prestazione e quel precariato che non diventava fonte di angoscia ma di ispirazione. L’occasione della vita arriva quando il loro agente sembra organizzargli una serata dove verrà a valutarli un talent scout della popolarissima trasmissione Drive In. Non tutto andrà come sembra, nel bene e nel male. Cinema che racconta il sogno della tv, la stessa che negli anni l’ha lentamente fagocitato. Un cast che sarebbe diventato cult: Bisio, Silvio Orlando, Abatantuono, Bebo Storti, Riondino, Nanni Svampa, Gigio Alberti, Raul Cremona, Paolo Rossi..tutta la ‘banda’ che accompagna da sempre lo stupendo cinema di Salvatores. La quarta giornata si chiude così, con la corsa di Paolo Rossi verso macchina, il comico più veloce di Milano.

 

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