A MilanoFilmFestival – Terzo report 16-19 settembre

MilanoFilmFestival – Terzo report 16-19 settembre

 

Cinque giorni di molte notti e poco sonno, me le sento ora che scrivo. Parafrasando i Negrita per rendere il concetto che, superata la metà del festival, la combinazione lavoro e proieizioni-a-raffica inizia a farsi sentire. ‘Non sei più quello di una volta’ è il leit motiv che mi sento ripetere dagli amici che incontro durante gli spostamenti da una sala all’altra. Lode ad honorem per il noto sponsor dalla tazza rossa per il costante supporto a noi stanchi cin-erranti, che poi alla fine non bere mai caffè se non in casi disperati dà i suoi frutti. Sarà radical-chic-indie-pop-milanese ma il caffè al ginseng merita un certo rispetto.

La quinta giornata, una pigra domenica. Si apre con Francine di Melanie Shatzy, Brian M. Cassidy, lungometraggio in concorso con Melissa Leo, attrice premio Oscar che nello stupendo Frozen River di Courtney Hunt rivelava un talento e un’espressività rimasti low profile in troppi anni di gavetta interrotta quando Inarritu la scritturò per 21 grammi. Un marchio di garanzia per un piccolo film dalla sinossi curiosa: Francine, appena uscita dal carcere, vive in un mondo tutto suo dominato da una simbiosi animale oltre il limite del patologico. Sullo sfondo di quella provincia americana degradata e senza futuro, Francine prova a ricostruirsi una vita tra lavori sbagliati, (lesbo) amori e sveltine-da-polo, giri in bicicletta alla Jules&Jim, Johnny Cash, morbose passioni zoofile e relazioni sociali che sanno di reciproco accontentarsi per non affondare nell’alcool. Per salvare un cane intrappolato in un’auto finirà laddove ha iniziato. Una spirale-malefica da cui, come in un contrappasso dantesco, sembra impossibile uscire.

Un personale cambio di programma mi porta ad attraversare diagonalmente la città per approdare allo spazio Oberdan, alle sue code per entrare, ai bizzarri personaggi che spesso lo popolano e alla masterclass di Ben Rivers, filmmaker cui il festival dedica una retrospettiva completa. Le aspettative e la gioia di poter seguire una lezione di cinema vero, fatto di passione e sacrifici, si annacquano presto nella consapevolezza che l’inglese regist-artista abbia ancora poco da trasmettere. Non per mancanza di talento, anzi, quanto per la giovane età (classe ’72) e soprattutto per l’intrinseca incomunicabilità dell’estro puramente artistico. La masterclass si riduce quindi a una carrellata di eventi di vita: la formazione in una scuola d’arte, la pellicola sviluppata in cucina e fatta asciugare in bagno, la ricerca dei suoi people in the wildness, la passione per la ricerca dell’autenticità in Herzog e la potenza sovversiva dell’immagine. Il suo è un cinema trasversale, sperimentale, intimo, fatto con poche persone fidate che condividono lo stesso posto mentale, elitario nel suo avere come primo pubblico quello delle gallerie d’arte. Un background artistico che affonda le radici nella scultura, nella materia fisica/viva: da qui il rifiuto per il digitale e l’amore incondizionato per la pellicola, fin dalla prima Bolex anni ’70. Nel 2011 fa il salto dalla video-arte e dai corti verso il lungometraggio. Two years at sea (2011), vincitore del premio Fipresci a Venezia 68 e del festival Filmmaker, riprende l’uomo-personaggio Jake Williams del suo corto This is my land (2006): un’opera intensa, difficile, fatta di silenzi, dove succede poco e non viene spiegato nulla perché è lo spettatore che deve investire tutto sé stesso per entrare nell’universo di Rivers. Applauso finale dovuto più per l’opera che per la lezione in sé..rivediamoci tra dieci-anni-o-poco-più, quando l’esperienza avrà trovato le parole per spiegare l’irrazionalità di un talento wild.

Cena anticipata causa fuga dall’inspiegabilmente pessimo concerto sul sagrato dello Strehler de Lo stato sociale, gruppo che di solito dà il meglio di sé dal vivo. O forse una motivazione c’è, perché una performance di un’ora abbondante è troppo per una formazione con un solo album (corto) all’attivo, anche considerando le frequenti interruzioni teatral-cabarettistiche che alla lunga stancano invece che divertire.

La mia serata festivaliera si chiude in bellezza con il primo film di Gianni Amelio, Colpire al cuore (1982) con il regista che, dopo aver tenuto nel pomeriggio una lezione di cinema, si presenta allo Strehler per introdurre il suo film. Quello che incontrò tante difficoltà produttive con quel dialogo che il produttore Paolo Valmarana fece aggiungere alla fine per chiarire che il film non giustificava il terrorismo – nelle parole del regista è ancora forte il rammarico per le tante limitazioni che dovette accettare -, le critiche a Venezia e la messa in onda tardiva sulla Rai. L’applauso di una sala gremita dimostra l’affetto per Amelio e il riconoscimento della carriera di uno dei maestri del nostro cinema. Sullo sfondo della Milano smog-grigio-scuro dei primi anni ’80, Amelio racconta la storia di un padre e di un figlio, o meglio di un figlio contro un padre o forse di due vittime-delle-circostanze nel periodo buio degli anni di Piombo, tra politica e contestazione, terrorismo e adolescenza travagliata. Sul palco sale anche Fausto Rossi, il piccolo Emilio protagonista del film, che ricorda le emozioni di quella sua prima e unica – per scelta personale – esperienza sul set. Sui titoli di coda rimane il rimpianto di un possibile talento che nel film tiene testa a quel mostro sacro di Jean-Louis Trintignant. Una costruzione narrativa lenta-ma-inesorabile e un finale di elevata tensione drammatica ne fanno uno tra i film più potenti sul clima degli Anni di Piombo. Curiose suggestioni da metacinema quando Amelio entra nel buio della sala e, fermandosi a pochi passi da dove sono seduto, urla ‘Fausto..Fausto’. Sembra l’inizio di un siparietto surreal-grottesco e invece la risposta ‘si, Gianni sono qui..esco’ rivela come il regista stesse semplicemente richiamando l’attenzione del proprio assistente. Aneddoti caserecci che rendono unico un festival che non si è montato la testa.

Un lunedì controcorrente mi vede snobbare la storia maratona d’animazione al Parco Sempione, peraltro invasa da una fiumana di gente assiepata ovunque, per l’interessante documentario Side by side diretto da Chris Kenneally e prodotto da Keanu Reeves. L’occasione di questa anteprima italiana, inserita nella sezione The Outsiders, era così allettante da giustificare il forfait alle tre ore non stop di cui sopra. Il concept del documentario è semplice quanto attuale: in questi anni di transizione, digitale e pellicola si stanno giocando una partita molto importante in campo cinematografico, tra amanti della cellulosa a tutti i costi o digital-invasati che trasformerebbe qualsiasi cosa in una sequenza di 0 e 1 (se state pensando che mi stia riferendo a George Lucas, non vi state sbagliando). “Non fidarti troppo di me Keanu..ma con la pellicola ho finito” afferma il sornione David Lynch, uno cui il digitale permette di sublimare la propria poetica. Lucas e Cameron recitano la solita inutile parte di integralisti senza pensare che possano (co-)esistere visioni differenti sul fare cinema, storie che non richiedano quella CGI o il 3D a loro tanto cari. L’equilibrio di un maestro come Scorsese, uno che è nato con la pellicola ma ha girato Hugo Cabret in digitale 3D, è il segno di come intelligenza/esperienza possano fornire la risposta migliore alla fatua diatriba: la scelta, puramente artistica, spetta al regista che deve valutare quale sia il mezzo migliore per raccontare la propria storia nel modo in cui vuole raccontarla. “I hate 3D..I put on those glasses, I get sick to my stomach” la concretezza di Wally Pfister va di pari passo con quella del ‘suo’ regista Christopher Nolan, uno che girerà in pellicola (IMAX preferibilmente) fino a quando ci saranno metri di cellulosa da impressionare. Se è vero che il digitale in fase di proiezione è un salto di qualità notevole ed evidente, romanticismi a parte legati alle imperfezioni del 35mm sullo schermo, la discussione riguardo ai formati di ripresa è ancora aperta. Forse sono finiti i tempi in cui il direttore della fotografia era quasi considerato un mago – l’unico sul set a sapere veramente cosa sarebbe rimasto impresso – però di sicuro non si può pensare che la democratizzazione dei mezzi non richieda la stessa professionalità di una volta. Un concetto tanto semplice quanto non così scontato.

Unico appunto, da non sottovalutare, è la volontà dell’opera di essere sia divulgativa che tecnica, una scelta di stile che farà storcere il naso a chi cercava una disanima più specifica. Aldilà di questo, una stupenda occasione per sentir dibattere a distanza alcune tra le più grandi personalità del cinema mondiale: oltre ai già citati, ricorderei Fincher, Soderbergh, Robert Rodriguez, Danny Boyle, Lars Von Trier, Anthony Dod Mantle, Walter Murch, Vilmos Zsigmond, Vittorio Storaro, fratello e neo-sorella Wachowski, Michael Chapman..una lista davvero lunga che testimonia l’ampiezza del lavoro svolto per realizzare questo documentario. Un’appassionata ode alla settima arte, perché alla fine non importa che mezzo usi, ma quale storia racconti.

Ancora una volta le malefiche sovrapposizioni di programma non mi hanno permesse di vedere This time tomorrow, lungo in concorso realizzato da Shane Bisset, assistente di Jonathan Demme già intravisto l’anno scorso durante la retrospettiva dedicata al suo maestro.

Serata di martedi allo Strehler dedicata allo sport, con due opere di assoluto rilievo: il lungometraggio in concorso China Heavyweight di Yung Chang e il documentario su quell’immenso calciatore e personaggio di Hristo Stoichkov. Due film molto diversi all’insegna dello sport come mezzo di riscatto.

China Heavyweight è l’opera seconda di Yung Chang, giovane autore cinese trapiantato in Canada. Presentato con successo all’ultimo Sundance Film Festival, il suo secondo lungometraggio sa combinare senza soluzione di continuità la rappresentazione documentaristica sulle trasformazioni in atto nella Cina contemporanea ai tempi/ritmi della narrazione fiction. “Se vi allenate tanto diventerete professionisti, altrimenti coltiverete tabacco” con questa frase coach Qi, ex-pugile di successo, pone davanti ai propri allievi un bivio di vita: da una parte la nobile fatica quotidiana che piega la schiena dei loro genitori, dall’altra la strada del ring fatta di perseveranza e disciplina. Sarebbe sbagliato etichettarlo come un semplice film sulla boxe, su quello sport occidentale che nel 1959 Mao dichiarò fuorilegge perché troppo violento. China Heavyweight è uno spaccato sulla Cina contemporanea, sulla dedizione e il sacrificio quotidiano come unica strada per un’esistenza onorevole, sia essa dedicata a coltivare i campi, a spalare sabbia o a lottare per arrivare alle Olimpiadi. In bilico sul labile confine tra realtà e fiction, i due giovani protagonisti del film di Yung Chang lottano per trovare il proprio posto nella società, combattano per il proprio paese e al tempo stesso per sé stessi. Difficile non fare il parallelo con l’Italia di oggi, dove si celebra ufficialmente la mediocrità e le scorciatoie, dove si idolatrano finti asini d’oro, dove si esaltano i comportamenti negativi e quelli positivi diventano quasi motivo d’imbarazzo, dove l’uno su mille che ce la fa spesso è un raccomandato, dove si bara anche nella scelta dei concorrenti di un reality. Al suo secondo lungometraggio, questo giovane regista cinese ci consegna un’opera solida, classica nello stile e perfetta nel saper combinare l’anima documentaristica con quella narrativa. Un potente documentario d’azione.

Breve pausa prima di tornare in sala dove uno dei due direttori artistici, Vincenzo Rossini, introduce con orgoglio il documentario su un monumento vivente del calcio bulgaro e mondiale. In tempi in cui non esistono più le bandiere e dove i troppi soldi smuovono cuori e proclami di amore incondizionato per il proprio club, il calcio può ancora essere mitopoietico, può ispirare le giovani generazioni ricordando che i risultati si ottengono solo con il duro lavoro? La sezione The Outsider prova a rispondere alla domanda con Stoichkov, regia di Borislav Kolev (noto critico cinematografico e giornalista).

1994, USA, mondiali di calcio. Dopo un inizio disastroso, sconfitta 3-0 con la Nigeria, la Bulgaria dei miracoli si gioca la semifinale contro la corazzata Germania, campione in carica dopo la vittoria a Italia ’90. 2-1 è il risultato che permette alla formazione bulgara di scontrarsi (perdendo) con l’Italia per la finale. A guidare quella formazione fatta di ottimi gregari e grandi campioni (Kostadinov, Lechkov, Balakov) c’è Hristo Stoichkov, incarnazione assoluta di genio e sregolatezza, uno di quei giocatori che da solo poteva cambiare il corso di una partita. Il documentario, prodotto dalla Federazione di calcio bulgara, parte dalla sua grandiosa carriera per raccontare come una squadra di calcio riuscì a riscattare una nazione intera. Le difficoltà scolastiche di un ragazzino irrequieto che era meglio non fare arrabbiare, i primi campi da calcio e la delusione di essere estromesso dalla squadra perché considerato senza prospettive; poi il CSKA Mosca, quel numero 8 leggendario che non abbandonerà più, anche quando il partito comunista decise di espellere lui e altri giocatori del campionato a seguito di una rissa post partita: uno spartiacque che per molti significò l’interruzione prematura di una brillante carriera, una condanna. Ma destino e forza di volontà aiutarono Stoichkov a risalire la china e a diventare un idolo più all’estero che in patria: a Barcellona da Johan Cruyff uno come lui ‘que tienes dos cojones asì’ entrò di diritto nel cuore dei sanguigni tifosi baschi, indimenticato campione amato più di qualsiasi altro al Camp Nou. Istinto, ambizione, talento, lealtà e generosità dentro e fuori dal terreno di gioco, uno a cui non importava di ‘morire’ sul campo.

L’ottava giornata del festival mi catapulta lontano dal centro nevralgico verso lo spazio Oberdan (Cineteca Italiana), luogo senza tempo dove gli orari sono soltanto un suggerimento e tutto è relativo.

War Matador di Avner Faingulernt e Macabit Abramson (presente in sala) nell’ambito della mai banale rassegna Colpe di Stato meriterebbe una lunga riflessione per la complessità della realtà affrontata: il conflitto israelo-palestinese e in particolare l’Operazione piombo fuso. L’obiettivo della campagna militare organizzata dell’esercito israeliano era colpire duramente Hamas sfiancandone la resistenza nella striscia di Gaza. Data la sproporzione delle forze in campo, il risultato dei 22 giorni di combattimenti fu una carneficina di militanti e civili palestinesi. Dicevo che ci sarebbe molto da discutere, non fosse per l’infelice spiegazione data dalla regista Macabit Abramson alla metafora del matador introdotta a inizio film e ripresa più volte nel corso del documentario. La situazione israelo-palestinese agli occhi dei due filmmaker è paragonabile a un cerchio in cui entrambe le ‘fazioni’ sono rinchiuse senza possibilità d’uscita. Come una corrida dove le parti si sfidano in uno scontro mortale. In questa logica malata per cui l’altro è sempre un nemico, in cui adrenalina e odio fanno perdere di vista qualsiasi tipo di razionalità, secondo la Abramson negli anni le due parti si sono scambiate di continuo il ruolo di toro e di matador. Lungi dal voler semplificare i tanti anni di sangue, fa specie l’idea che si possa pensare a una sostanziale equità di ruoli/colpe tra i due stati. Quest’irritante ipocrisia si riverbera anche nell’approccio tecnico-realizzativo, in quell’inutile vena artistoide per la quale due docenti universitari di cinema, residenti al confine con Gaza, possano recarsi a documentare la storia con la pretesa di non aver alcun tipo di script o idea. Non è accettabile perché è impossibile fingere di non aver maturato un certa consapevolezza, di non aver una forma mentis da filmmaker che ti fa interpretare/filtrare i fatti attraverso schemi cultural-mentali. È un ingenuità di sguardo che per i motivi di cui sopra non possono aver mantenuto, come dimostrato da alcune scelte stilistiche forti e irreversibili (l’utilizzo dall’out-of-focus e la camera sempre in movimento). Questo viaggio ai confini di una terra di confine come Gaza aveva bisogno degli occhi e dell’onestà intellettuale di uno come Avi Mograbi, non a caso celebrato dal Mff 2009 con una rassegna delle sue opere. Il rammarico vero è il poco tempo concesso al dibattito, causa abbondante sforamento dei tempi previsti, che non mi ha permesso la personale polemica con l’autrice.

L’orologio segna le 20.50, dieci minuti per alimentarsi e rimettersi in coda per il film successivo, l’attesissimo lungometraggio Il n’y a pas de rapport sexuel del video-artista Raphael Siboni. Zaino in spalla entro in una nota catena di fast-food, non è il meglio sulla terra ma è l’unico che soddisfi il criterio prezzo-tempo-vicinanza. Un dipendente sveglio intuisce la mia fretta e velocizza l’operazione rubando panini preparati per altri. 8.53, meno di sette minuti per terminare hamburger-gigante, patatine fritte e coca ghiacciata per la gioia dell’apparato digestivo. Mi incammino verso l’Oberdan e, nonostante il buio e la mancanza degli occhiali, noto la coda allucinante fuori dal cinema. Probabilmente non ero l’unico che aspettava questa proiezione, ma per fortuna un’insolita lungimiranza ha fatto si che mi facessi stampare il biglietto insieme a quello per lo spettacolo precedente. Decido di addentrarmi nella folla, oltrepassando la rassegnazione di chi sente urlare che i posti sono esauriti. All’entrata della sala trovo a strappare i biglietti l’altro direttore artistico, Alessandro Beretta, all’insegna de ‘la gavetta non va mai dimenticata’. Sala stracolma, il che mi fa pensare dove finisca l’interesse cinefilo e inizi quello voyeuristico visto che si tratta pur sempre di un film sul porno realizzato con immagini porno. Per 15 anni il re dell’hard francese Hervè-Pierre Gustave (HPG) ha lasciato la videocamera accesa sui set dei suoi film osè, quasi quarantamila ore di backstage. La grande sensibilità artistica di Siboni permette allo spettatore di andare oltre l’iniziale imbarazzo per immagini soft-porn ma pur sempre porn: gioca prima sull’aspetto più divertente del dietro le quinte, quello dove si vedono improbabili attori impegnati a interpretare trame improbabili o a simulare amplessi con rumoristica e faccette ad hoc; poi spingendo la riflessione dello spettatore più a fondo, senza intervenire in modo invasivo ma suggerendo spunti con scelte di immagini e di montaggio molto precise e tutt’altro che casuali. Siboni illustra una professione che, pur nell’eccezionalità dei contenuti, presenta le stesse caratteristiche di un qualsiasi lavoro e i protagonisti, lontani dall’olimpo dei pornodivi, sono facce comuni che per scelta o per necessità economica si sono trovate a lavorare nel settore. Chi non ha visto il film potrebbe prendermi per pazzo e anch’io non avrei mai scritto queste parole prima della visione, però a conti fatti è così. Credo non ci possa essere modo migliore per descrivere il mondo del porno e di come dietro alla mitizzazione di presunte prestazioni leggendarie ci sia un lato umano fatto di emozioni che vanno ben oltre il piacere fisico, ci siano umanità borderline che spesso sconfinano nel patologico o semplicemente esprimono così la propria solitudine. Nessun giudizio morale o etico, soltanto una rappresentazione sincera.

Intanto la mole di fogli, quadernetti, moleskine, post-it si fa importante e il tempo di riordinare/digitalizzare scarseggia. Ma, come direbbe Walter Sobchak, niente è perduto.

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.