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4/10

Quello Che So Sull'Amore regia di Gabriele Muccino

Drammatico
recensione di Fabrizia Malgieri

Un ex calciatore scozzese che ha giocato in grandi squadre europee, ha avuto successo, fama, denaro, donne, ma la sua carriera è stata breve ed è finito in una modesta squadra della provincia americana, poi ha sprecato la sua vita, ha divorziato dalla moglie, ha lasciato il figlio e per cercare di recuperarlo ritorna nella cittadina.

Non basta un cast stellare a fare un film hollywoodiano. Terzo capitolo della sua personale saga americana, Quello che so sull’amore di Gabriele Muccino riporta inevitabilmente alla mente buona parte della sua ultima filmografia made in Italy: giovani coppie separate, un figlio come unico trait d’union tra due amanti divisi da un intollerabile tradimento (di lui), l’immaturità di un padre quarantenne disposto a tutto per riconquistare la fiducia della moglie amata (se ne accorgono sempre troppo tardi!) e di un figlio che a malapena conosce. Canoni, clichès, o semplice mancanza di idee. Seppur sbarcato in una delle terre più fertili per il cinema mondiale e con, dalla sua, due primi film americani di buona fattura (e sceneggiatura), Gabriele Muccino ritorna sui suoi passi, convertendo ciò che ha mescolato e riscaldato per anni (troppi!) nel suo passato, in una stomachevole pastura in salsa stelle-e-strisce. Buoni sentimenti a valanga, scontati colpi di scena, una vuotezza narrativa disarmante: non sorprende che il regista non sia riuscito a conquistare neanche il pubblico statunitense, solitamente “di bocca buona” quando si tratta di pellicole drammatiche/sentimentali.

Accanto al granitico “dal cuore tenero” Gerard Butler (forse il più convincente tra i “pezzi da novanta” che fanno capolino nel film, nonché uno dei produttori), non risultano altrettanto brillanti due delle tre star femminili presenti nel cast, a partire da Mrs. Timberlake aka Jessica Biel, una donna-madre-amante addolorata fin troppo sopra le righe,  per non parlare di una silenziosa (e a tratti irritante) Uma Thurman, che funge solo da inutile comparsata. Già più interessante risulta l’interpretazione di Catherine Zeta-Jones, divisa tra l’essere un’affascinante femme fatale e una desperate housewife annoiata, che alla fine rivela il suo lato più umano e gentile.

Un finale alla melassa concentrata fa da chiusa ad una pellicola che lascia, al contrario, fin troppa amarezza: un’ (altra) occasione persa per mostrare il lato più interessante del cinema italiano, delle cui valorose gesta si racconta oramai solo in qualche retrospettiva festivaliera all’estero o grazie a qualche piccola punta di diamante che ci ricorda che nulla, per la nostra cinematografia, è definitivamente perduto.

Fortunatamente. 

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