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8/10

Effetti Collaterali regia di Steven Soderbergh

Thriller
recensione di Fulvia Massimi

Dopo quattro anni d’attesa, Emily Taylor (Rooney Mara) può finalmente riabbracciare il marito Martin (Channing Tatum), in carcere per insider trading. Il ritorno ad una vita normale non è però sufficiente a placare i sintomi della depressione che da tempo la affligge. Il nuovo psichiatra da cui è in cura, il dottor Jonathan Banks (Jude Law), le prescrive una serie di farmaci inefficaci, finché uno, l’Ablixa, supportato anche dalla precedente terapeuta (Catherine Zeta-Jones), sembra avere successo. Gli effetti collaterali della cura, tuttavia, porteranno Emily a commettere un omicidio.

Prossimo a calcare il red carpet della Croisette con Behind the Candelabra - incursione nella vita sentimentale del musicista Liberace, prodotto dall’emittente privata HBO – Steven Soderbergh attesta la prolificità “alleniana” che lo contraddistingue fin dagli esordi (più di trenta i film realizzati dal 1989, anno della Palma d’oro a Cannes con Sesso, bugie e videotape) arrivando nelle sale nostrane con Effetti Collaterali, thriller farmaceutico ad alta tensione presentato in concorso a febbraio alla 63esima Berlinale.

Dopo aver dichiarato di voler lasciare il cinema per dedicarsi alla televisione – sito privilegiato, secondo il regista, di un senso di ambiguità e complessità narrativa che il pubblico americano è scarsamente incline a ritrovare sul grande schermo – Soderbergh “chiude” la propria carriera recuperando proprio le ambiguità meta-narrative del suo primo lungometraggio, oltre alle atmosfere thrilleristiche di Contagion e allo spirito di denuncia di Erin Brockovich, riducendo la carica catastrofista del primo e lo sbilanciamento verso il court-room drama del secondo, a favore di un intreccio finzionale di pura suspense. Il risultato è un impeccabile omaggio (fin dalla primissima inquadratura) al cinema di Alfred Hitchcock, e in particolare al tema, carissimo al cineasta britannico, dello “scambio di colpa”.

È lo stesso Soderbergh a dichiarare, in conferenza stampa a Berlino, che «il motivo per cui i film di Hitchcock sono ancora belli da vedere è perché esplorano la colpevolezza, una condizione affascinante da raccontare», espressa in Effetti Collaterali grazie all’espediente narrativo del “trasferimento di colpa”, un leitmotiv hitchcockiano di cui L’Altro Uomo (1951) è senza dubbio il caso più emblematico. Il confine labile che separa innocenza e responsabilità criminale non avviene tuttavia, nel film di Soderbergh, attraverso uno scambio diretto di crimini – come accadeva invece nel baratto (parzialmente volontario) di omicidi tra il tennista Guy Haines (Farley Granger) e lo psicolabile Bruno Antony (Robert Walker).

La sceneggiatura decennale di Scott Z. Burns – già collaboratore di Soderbergh in Contagion e The Informant! – si avvale piuttosto dei meccanismi sottili del thriller a svelamento, disseminando indizi che lo sguardo attento dello spettatore può cogliere soltanto in parte, e ai quali  la confessione finale del colpevole sarà in grado di fornire davvero piena coerenza. Il sistema del trasferimento di colpa resta tuttavia incastonato nella struttura portante del film, che di esso si serve non solo per intorbidare le false certezze del pubblico – sviato dalla verità proprio nel momento in cui crede di averla raggiunta – ma anche per creare un clima di sospensione che renda effettivamente impossibile identificarsi o parteggiare senza riserve per ciascuno dei personaggi principali.

Complice un trailer giustamente fuorviante, lo spettatore entra in sala con idee preconcette che Soderbergh non manca di smontare una per una, servendosi della natura trasformativa dello script di Burns per far mutare il proprio film sotto gli occhi di chi lo guarda. Esattamente come in Sesso, bugie e videotape, ciò che appare – o meglio, ciò che viene mostrato – non corrisponde quasi mai al reale, e la verità giace sotto la superficie non già del solo racconto, ma soprattutto dello stesso medium cinematografico, manipolatore e infine testimone di false verità.

Data l’inaffidabilità dei personaggi – in particolare la conturbante protagonista Rooney Mara, in un ruolo sfaccettato che le rende piena giustizia – è proprio all’occhio della macchina da presa che lo spettatore deve fare affidamento, lasciando che siano la regia e il montaggio dello stesso Soderbergh (con lo pseudonimo “coeniano” di Mary Ann Bernard) a guidarlo verso la scoperta della verità. Intrico narrativo e intrigo farmaceutico-finanziario si sovrappongono fino a fondersi in un racconto teso al disorientamento, che ai sintomi indotti (forse) dalle alterazioni fisiologiche della malattia e a quelle chimiche della sua terapia fa riferimento diegetico per confermare la propria natura instabile.

Che sia sempre Soderbergh, appunto sotto falso nome, a farsi carico delle incombenze tecnico-artistiche del film (sua anche la fotografia dai toni freddi, acidi e decisamente fincheriani) è anch’esso lo specchio (autoriale) di una tendenza complessiva all’ambiguità: un gioco al massacro con le fragili convinzioni del pubblico, che, proprio come nel cinema di Hitchcock, viene manovrato e spinto a provare esattamente ciò che il regista desidera, perdendosi anima e corpo nella croyance. Il ritorno ad una riflessione sul ruolo della terapia psicoanalitica – grazie anche all’ottima performance di Jude Law e della Zeta-Jones – è in tal senso significativo: non più la talking cure amichevole dell’analista di Ann Mullany in Sesso, bugie e videotape, ma la sua pericolosa svolta farmacologica, che affida alle pillole più che al confronto dialettico il raggiungimento di uno statuto di salute psico-fisica.

La critica al controllo dell’individuo, così come del mercato, da parte delle lobby farmaceutiche viene condotta da Soderbergh con spirito militante, meno scoperto che in passato ma più acuto e pungente nello sfruttare “l’optional della fiction” (Maurizio Porro) per instillare nello spettatore il necessario esame di coscienza. Alla denuncia del sistema di compliance psicoterapica e della collaborazione anti-etica tra medico e grandi aziende si affianca inoltre un’attualissima incursione nel mondo dell’asimmetria informativa in ambito finanziario, incarnata prima dal personaggio di Martin (Channing Tatum, attore-feticcio dell’ultimo Soderbergh, in un ruolo accessorio e appena accennato) e poi estesa  in termini di intreccio narrativo all’intera pellicola.

La cura del dettaglio nella costruzione del quadro e la predilezione per movimenti di macchina scoperti, angolazioni inconsuete e volontarie sgrammaticature di montaggio si abbinano, come di consueto, ad una straordinaria abilità nella direzione del cast e nella levigatura dell’immagine, attributi indispensabili di un cinema che conferisce maestria e consapevolezza autoriale anche ad intrecci non particolarmente innovativi sul piano del racconto. E se il grande schermo sentirà senza dubbio la mancanza di Soderbergh negli anni del suo “ritiro volontario”, resta da vedere come invece lo accoglierà la televisione: che sia l’inizio di una nuova era?

V Voti

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alexmn 8/10

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