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7/10

Educazione Siberiana regia di Gabriele Salvatores

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi & Alessandro Naboni

1988-1998. A Fiume Basso, nel sud-ovest della Russia, il giovane Kolima (Vilius Tumalavicius) cresce secondo gli insegnamenti del nonno Kuzja (John Malkovich), esponente di spicco della comunità siberiana dei "criminali onesti". Insieme ai compagni d'infanzia e adolescenza - Gagarin, Mel, Vitalic, e la "voluta da Dio" Xenya (Eleanor Tomlinson) - Kolima impara a sopravvivere in un clima di violenza ritualizzata, ma la brama di denaro e le tentazioni del nuovo mondo globalizzato metteranno a dura prova il suo rapporto con il migliore amico Gagarin. 

Fulvia Massimi (voto 7):

Una giostra arcobaleno svetta al centro di un oceano bianco di neve, circondata dal grigiore ripetitivo di casermoni uguali a se stessi, mentre la voce di David Bowie si diffonde dagli altoparlanti cantando Absolute Beginners. E' forse questa una delle immagini più significative di Educazione Siberiana, l'ultima fatica di Gabriele Salvatores, che al brano di Bowie deve molto non solo in termini di personale apprezzamento, ma anche di corrispondenza testuale, tanto nell'economia del film che del suo apparato extra-diegetico.

Ispirato al romanzo d'esordio dello scrittore siberiano (d'origine ma non di lingua "letteraria")  Nicolai Lilin, quello di Salvatores è infatti un film anomalo, fatto di "principianti assoluti" e prime volte: la prima collaborazione con Cattleya, il primo adattamento proposto e non personalmente scelto, la prima "grande produzione" (con un budget stimato tra gli otto e i nove milioni di euro) e la prima pellicola interamente in lingua inglese, con la partecipazione di attori internazionali, amati ma mai scritturati prima, quali John Malkovich e Peter Stormare.

E, soprattutto, un film di prime interpretazioni, come quelle dei giovani esordienti lituani Vilius Tumalavicius e Arnas Fedaravicius, presi "dalla strada" e scelti per ricoprire i ruoli di Kolima e Gagarin in base alla loro vicinanza emotiva e biografica, prima ancora che fisica, ai personaggi nati dalla penna di Lilin e portati sul grande schermo dalla coppia di sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia, di concerto con lo stesso Salvatores.

Superate le remore iniziali e il timore di uno stravolgimento dell'originale letterario, Lilin affida le sorti della propria opera prima ad un regista non certo privo di esperienza nel campo dell'adattamento cinematografico, come ampiamente testimoniato dal sodalizio con Niccolò Ammaniti (il cui romanzo breve Io e Te non ha invece trovato uguale fortuna nelle mani di Bernardo Bertolucci). La sinergia tra Lilin e Salvatores si dimostra vincente e, nonostante le debite e dovute differenze rispetto al materiale di partenza, il film del regista premio Oscar per Mediterraneo riesce a conciliare con efficacia la propria visione cinematografica con il rispetto della formazione culturale dell'autore letterario.

Poco incline ad assecondare l'odierna assuefazione alla messa in mostra della violenza, Salvatores guarda con fedeltà all'opera di Lilin, ma al tempo stesso ne attenua con consapevolezza la brutalità, rifacendosi all'idea di una violenza potenziale, racchiusa nella metafora della lama di un coltello a serramanico. La picca di Kolima, compagna di vita fin dalla nascita, è infatti un'arma ambigua, sospesa tra lo scatto che uccide, infilandosi nella carne (animale e umana) per poi lacerarla, e il riposo che non ferisce, risparmiando una vita.

Più che l'orrore del carcere o la cruda lotta per la sopravvivenza nelle strade, a interessare Salvatores è piuttosto il rapporto "d'amore impossibile" tra Kolima e Gagarin, un'amicizia minacciata dall'avanzata del male nella forma della corruzione economica e fisica: il denaro e la droga, i due poli immondi di un consumismo che s'insinua nelle crepe del defunto Muro di Berlino per spirare sulle terre ghiacciate dell'ex-Unione Sovietica, infettandone le ataviche tradizioni. L'indagine socio-antopologica dei culti e delle ritualità insite nei clan siberiani della Transnistria - terra di nessuno, negata dagli occidentali e rivendicata dagli orientali - resta dunque centrale nel film come nel romanzo, sebbene la complessità dei riferimenti e del vocabolario utilizzato da Lilin per rendere conto della propria esperienza "educativa" non possa che essere ridimensionato.

"Meglio un cattivo maestro che nessun maestro", afferma Salvatores, e nelle lezioni di vita di nonno Kuzja - ruolo amplificato in favore dell'istrionismo di John Malkovich - il messaggio appare chiarissimo. L'eccezionalità dell'opera di Lilin, pur nel suo linguaggio spurio e nella sua mancanza di autenticità autobiografica (come da ammissione dell'autore), va dunque ricercata nella sua veridicità, nella capacità, cioè, di trasmettere attraverso una finzione letteraria supportata dall'esperienza (nel carcere minorile e tra le fila dell'esercito della Federazione Russa durante la guerra in Cecenia) la realtà di un universo culturale avulso dallo spazio e dalla cognizione etica dello spettatore occidentale.

In questo senso, Salvatores riesce nell'impresa più ardua: rispettare i pilastri dell'"educazione siberiana" senza perdere né in correttezza  filologica né in tensione cinematografica. Il romanzo di partenza viene sì riadattato per aderire alle esigenze della narrazione per immagini, sviluppando una linea drammatica che tende inevitabilmente a staccarsi dal libro per articolarsi in un triplice asse narrativo non cronologico (infanzia, maturità e servizio militare si sovrappongono nel montaggio attento di Massimo Fiocchi), ma riesce anche ad offrire, ed è lo stesso Lilin ad affermarlo, una ricchezza nuova, che trascende la limitatezza delle parole per ampliare lo spettro della rappresentazione delle emozioni.

Non è un compito facile: laddove gli ampi paesaggi e gli scorci naturali si prestano all'occhio della macchina da presa nel loro fascino spontaneo, la ricostruzione delle ambientazioni interne ed esterne si impone doverosa, in una Lituania contemporanea ben lontana dall'incarnare la Siberia di quindici anni fa. E se il lavoro della scenografa Rita Rabassini è vitale per l'intento, le musiche gitane di Mauro Pagani fanno il resto, contribuendo a ricreare quel macrocosmo allegorico di cui Lilin è portavoce. Con l'ausilio di Italo Petriccione alla fotografia, Salvatores costruisce immagini di grande impatto visivo, nel tentativo di rivitalizzare un interesse per la bellezza come fatto artistico ed esistenziale troppo spesso trascurato, per non dire oscurato, dal pensiero razionale e funzionale del comunismo sovietico.

A tale desiderio risponde dunque la centralità rivestita, anche nel film, dal rituale del tatuaggio, inteso come forma di creatività antitetica alla violenza carceraria, ma soprattutto come narrazione su carne (tema già sviluppato da David Cronenberg nel magnifico La Promessa dell'Assassino), alla cui etica Salvatores si avvicina con rispetto e curiosità. Lungi dall'essere soltanto un orpello estetico, il tatuaggio viene considerato nel suo valore iconografico e simbolico anche al di fuori del quadro al filmico, al punto che la mappatura artistica di ogni personaggio (evidente nella scena della sauna) viene realizzata sulla base della sua biografia, in un processo che lo stesso Salvatores definisce "un metodo Stanislavskji al contrario".

Con Educazione Siberiana, il regista napoletano realizza il suo film più difficile in termini produttivi, e forse per questo uno dei più cari. Il fascino della diversità culturale si esprime nell'accuratezza della documentazione e nell'eterogeneità della messa in scena, tesa a ritrarre un microcosmo ostinato nella sua epica resistenza alla colonizzazione occidentale, barricato com'è nei valori universali e paradossali dell'onestà criminale, di un credo religioso che alle croci sovrappone le pistole.

Ed è nella parabola del lupo traditore che si manifesta l'essenza del credo siberiano: dignità e rispetto per l'inviolabilità delle cose belle e pure (Xenya), sfregio e distruzione degli avidi e dei corrotti (poliziotti, usurai), secondo la logica stringente non già di una totale assenza di moralizzazione ("Il giusto non è esistito mai"), ma di un insegnamento necessario, anche se scorretto. Perchè, dichiara Salvatores: "Bisogna prendersi la responsabilità di dire 'questo è bianco e questo è nero', anche se non ne sei totalmente sicuro. Come un regista ai suoi attori, così un genitore con un figlio."

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Alessandro M. Naboni (voto 7):

Piccoli criminali onesti crescono. Chi per rincorrere la falsa illusione della ricchezza, chi per perseguire un ideale di giustizia troppo nobile per sembrare reale – o forse lo è per una distonia cognitiva figlia della mala-assuefazione alle (il)logiche (dis)educative del belpaese. Per la serie a-volte-ritornano-anche-fuori-tempo-massimo, o forse davvero il giusto non è esistito mai.

Una foto in bianco e nero ritrae quattro ragazzini in mezzo all’onnipresente neve-reale-e-del-cuore della Transnistria, stato non riconosciuto dall’Onu nella Moldavia Orientale. Kolima e Gagarin, sono i giovani padawan del clan dei Siberiani, gli Urka, poveri ma temuti da tutti. Il ghetto/comunità dove sentirsi protetti, nonno Kuzja virgilio-nella-selva-oscura, la madonna con due pistole incrociate simbolo delle contraddizioni di una religione riadattata su misura, la picca che ti segue tutta una vita dal taglio del cordone ombelicale fino alla vendetta guidata dall’alto per quella colomba che non poteva volare. Una foto in bianco e nero scattata quando tutto inizia a cambiare o a precipitare perché in questi casi è sempre una questione di prospettive nel paese dalle geometrie sociali non euclidee, fotograficamente tilt&shift. E allora la moralità alternativa, il rispetto per tutte le persone viventi tranne quelli che sfruttano il popolo (banchieri-usurai-poliziotti), l’importanza della misura perché chi vuole troppo è un pazzo, la lezione del lupo catturato che dimentica di essere un lupo, la fame che va e viene mentre la dignità una volta persa non ritorna più, trasfigurano in un’ulteriore rielaborazione personale di darwinismo sociale.

Spunti narrativi che potrebbero sembrare il frutto di un buon sceneggiatore, la materia per un film come quell’Eastern Promises di Cronenberg in cui Viggo Aragorn Mortensen interpretava il tenebroso autista di una potente famiglia russa a Londra. Ma saremmo scontati e fuori strada, col rischio concreto di far incazzare Nicolai Lilin, scrittore moldavo-naturalizzato-milanese pubblicamente elogiato da Saviano: lui ha vissuto queste storie sulla sua pelle, su quel quaderno intonso dove con gli anni si è composta una personale autobiografia di tatuaggi, non gli immotivati tribali da occidentale o le iniziali della (ex) fidanzata quanto un linguaggio complesso con proprie modalità di decodifica e lettura. Il dubbio che sia un fenomeno letterario molto costruito rimane forte, così come l’idea di Nicolai come buon selvaggio che non guarda la televisione, legge soltanto Dostojevski-Bulgakov-Checov-Tolstoj ed è completamente estraneo alle logiche dell’editoria e del marketing. D’altro canto ogni polemica pare pretestuosa perché al cinema e in letteratura la vita è come uno la racconta, incredibile quanto basta da non sembrare troppo inventata. L’indignato sarcasmo chiambrettiano, le imprecisioni di Wikipedia e la crociata del giornalismo alto si esauriscono così in un mare di asfodeli gialli di burtoniana memoria, nelle parole di un romanzatore-di-vite che non andrebbe preso per l’autore di un’autobiografia.

Nella viril-amicizia tra il troppo-puro-di-cuore Kolima e gollum-Gagarin s’inserisce Xenja, ragazza speciale voluta da Dio, trasferitasi col padre nella comunità Urka, l’unica a poterla accettare per com’è. Un casto anti-triangolo a-la-Jules-et-Jim che qualcuno non aveva considerato, ma che lo spettatore aveva intuito conoscendo il classico sguardo malato del cine-stupratore: in questa relazione il debole collegamento tra passato e presente, la giustificazione per raccontare le due opposte evoluzioni di un medesimo modello educativo. Ed è proprio nel voler mostrare le conseguenze di quelle scelte che non ti permettono di tornare indietro che la sceneggiatura scritta da Salvatores con Rulli-e-Petraglia mostra i suoi punti deboli, accentuati da una scrittura che disinnesca volutamente gli aspetti realmente più crudi e violenti; era forse più interessante approfondire quel mondo, vero o verosimile che sia, piuttosto che darne suggestioni impressionistiche, e addentrarsi maggiormente nelle dinamiche di un particolare sistema sociale e culturale. Ma il cinema di Salvatores è da sempre lontano da una dimensione etnologica cui il regista preferisce il racconto di uomini e amicizie, di percorsi di crescita personalissimi, di piccole storie che, anche nell’epica della narrazione di ampio respiro, non hanno una pretesa universale. In questo campo da gioco il regista-dagli-occhi-sinceri-di-eterno-cine-sognatore dà il meglio di sé, con i suoi personaggi anti-muccininani che si trovano a dover fare i conti con la propria esistenza, personaggi in continuo movimento fisico e mentale che non blaterano di viaggi retorico-esotici o dell’impossibilità di sottrarsi ad un’opprimente realtà. Educazione Siberiana s’inceppa proprio nei momenti in cui si allontana da Bildungsroman russo-dickensiano per entrare nelle dinamiche più di genere, deviazione storicamente impervia e con risultati alterni nella filmografia di Salvatores (anche se a tratti, Come Dio comanda, l’ho apprezzato).

A livello tecnico nulla da eccepire sulla solida impostazione registica – ma non avevo dubbi e i richiami da polizziotesco anni ’70 in alcune scene della prima parte (mi) fanno brillare gli occhi – né sulla splendida fotografia del sodale Italo Petriccione; contributi fondamentali per la notevole resa visiva sono quelli della scenografa Rita Rabassini, dei costumi di Patrizia Chericoni e delle magnifiche location lituane. Per la colonna sonora Salvatores si allontana dagli estremismi di Ezio Bosso o dei Mokadelic per ritornare alle atmosfere autorali del talentuoso Mauro Pagani (che in passato aveva lavorato con lui per Sogno di una notte d’estate, Nirvana e Puerto Escondido), cui s’affiancano pezzi come Absolute Beginners di David Bowie in una scena-da-film-francese-sul-68 e Kalì dei giovani Michele Ricciardi e Matteo Chiamenti (aka Noise Under Dreaming).

Se l’interpretazione di John Malkovich – o di chiunque sia entrato nella sua testa dalla porticina al piano 7-e-mezzo – nel ruolo del nonno/guida carismatica Kuzja era una certezza, così come il cameo di Peter Ink Stormare, la vera incognita era il trio di protagonisti: Arnas Fedaravicius (Kolima, forse l’attore più debole del terzetto), Vilius Tumalavicius (Gagarin) e Eleanor Tomlinson (Xenja) riescono a reggere sulle loro spalle una sceneggiatura potenzialmente insidiosa e dei ruoli che, mal interpretati, potevano diventare macchiette.

Nel periodo dei ragazzi della crisi dei valori in cui riempiamo diari con pensieri migliori, Salvatores sembra voler dire che l’importante nella vita è avere dei maestri, dei punti di riferimento con cui confrontarsi e, se necessario, scontrarsi; nella dialettica maestro-allievo, genitori-figli, regista-attori si gioca la qualità di ogni processo di crescita. E allora importa poco che Nicolai Lilin sia o meno un Gregory Arkadin alla ricerca di groupie letterarie quel che rimane è il messaggio, tutto il resto è noia.

 

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