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8/10

L Uomo in Piu regia di Paolo Sorrentino

Drammatico
recensione di Alessandro M. Naboni

Antonio Pisapia è un calciatore, stopper e capitano della sua squadra. È nel pieno della sua carriera e sogna un futuro da allenatore. Antonio ‘Tony’ Pisapia è un cantante neo-melodico di successo. Omonimie che si trasferiscono sulle loro vite quando il destino decide di voltare le spalle ad entrambi chiudendo in faccia le porte di un palcoscenico recitavano da protagonisti. L’esordio nel lungometraggio per il talentuoso regista Paolo Sorrentino racconta l’intesa storia di due uomini, Andrea Renzi e Toni Servillo, che si ritrovano da un giorno all’altro a essere perdenti senza possibilità di rientrare nel giro. In concorso alla mostra del cinema di Venezia del 2001.

Io senza calcio non sto bene. Fosse per me arriverei a morire in tuta, a novant'anni, all'aria aperta, a insegnare pallone a qualche ragazzo che avesse ancora voglia di starmi a sentire.

Zdenek Zeman 

 

Antonio Pisapia (Andrea Renzi), prima-calciatore-poi-ex dopo un grave infortunio, è un incompreso o meglio un alieno, uno che avrebbe tutte le carte in regola per stare dove sta se non fosse per l’ottusità di chi muove le pedine più importanti della scacchiera. Come Zeman, uno dei pochi sinceri-e-puliti di un calcio, quello italiano, con sempre meno soldi-e-magia e sempre più scommesse, partite truccate, bilanci-in-rosso e nostalgie delle epoche d’oro (avrei voluto sintetizzare il concetto con ‘la solita merda’ ma sarebbe stato eccessivamente populista). Cadde nel limbo dell’indifferenza mediatica e calcistica denunciando il marcio in cui tanti altri sguazzavano con la connivenza di chi ne traeva benefici o semplicemente aveva paura di tirarsi fuori. Lui no. L’onestà gli costò panchina e tanti anni di purgatorio. Almeno fino all’ultima promozione col Pescara, riscatto morale e sportivo di tutta una carriera professionale. Il suo schema (di vita) è sempre stato vincente, forse troppo in un mondo ipocrita che non apprezza quelli schietti, senza false riverenze e sudditanze psicologiche. L’uomo giusto nel posto sbagliato, senza maschera a una festa dove tutti ne portano più-di-una. Anche Pisapia, calciatore, è così: un sognatore che crede nello sport sano, vera passione e non semplice mezzo per guadagnare; si è sudato ogni passo senza cercare scorciatoie o accettare quei compromessi-metastasi di un cancro a lento decorso che si preferisce non curare. Un’idealista fuori tempo massimo nel paese dove il merito quasi mai costituisce un criterio di scelta al punto da essere scambiato per fastidiosa ostentazione.

Antonio ‘Tony’ Pisapia (Toni Servillo), cantautore neo-melodico napoletano, è uno di quelli che quando sbaglia non ha mai una ‘seconda’ occasione, perché arriva dal basso e non da quell’intellighenzia cui tutto si perdona e tutto è permesso (fare degli esempi sarebbe come sparare sulla Croce Rossa). Nasce a Vigo Speranzella, un paese dove riesci a sopravvivere solo se hai talento e una passione da seguire. La sua è il canto, fin da piccolo, fin da quando il padre prima s’incazzava e poi lo menava per farlo smettere. Ma lui non s’è mai fermato, s’è gettato a capofitto in una carriera di montagne russe parallele-e-asincrone, vita e arte: le serate nei piano bar, i primi dischi, il solito lutto-cicatrice-indelebile e il pesce cucinato come rito apotropaico per esorcizzare/ricordare quanto s’è perso, il distacco dai familiari per reciproche incomprensioni, i microfoni a giraffe degli studi televisivi e il meritato successo, quel magnifico anti-physique-du-role che faceva impazzire le donne, le tournee i ristoranti le risate e le lacrime degli spettatori, 6 smoking 150 camicie 90 paia di scarpe, poi la cocaina, le liaison proibite, un matrimonio di cartapesta, la prima volta con le manette e la difficoltà di tornare alla ribalta tra sagre paesane e crociere di mezz’età.

Omonimi dal destino affine, diverso nelle scelte ma non nell’ostracismo di mondi che li hanno circondati di vacue promesse di gloria. Esistenze che deragliano quando viene meno la filantrop-ipocrita benevolenza di menti raffinatissime, di chi, pensandosi intoccabile, dispone degli altri senza apparenti conseguenze. Si sbaglierà. L’arco narrativo dei due personaggi è segnato fin dall’inizio dal loro istinto da outisder che rifugge false gerarchie, compromessi e la parole di chi ti ricorda che devi ritenerti fortunato a stare dove stai. Come mi ha rotto i coglioni lei, non me li ha rotti mai nessuno, Pisapia. Da una parte un Don Chisciotte con gli scarpini contro i mulini a vento di un mondo (spesso) corrotto e corruttore che si auto-governa in uno stato di anarchia controllata e fluida dove tutti sembrano soltanto ingranaggi sostituibili e destinati a passare. Non tutto è così, ma le parole nascono da una disillusione figlia dei continui scandali – doping-scommesse-partite truccate-ingaggi da record – che minano la credibilità di questo sport. Dall’altra uno che è sempre stato libero, che ha amato quella libertà che voi non sapete manco che cazzo significa. La storia/fato li pone entrambi davanti a una scelta tra il ritiro silenzioso dai giochi, in quell’indifferenza che sconfina facile nella depressione, o l’uscita ad effetto, il coupe de theatre che almeno per un momento riesce a destabilizzare gli equilibri del sistema. Con modalità diverse sceglieranno entrambi la seconda strada: un’empatia impossibile li farà idealmente incontrare nella vendetta postuma di chi col destino segnato può soltanto concedersi un'ultima giocata, un atto di necessaria giustizia sommaria.

Con L’uomo in più (2001) Paolo Sorrentino esordisce alla regia di un lungometraggio prodotto dalla neonata Indigo Film di Nicola Giuliano e Francesca Cima, il duo che sarà dietro le quinte di tutti i suoi successivi film. Ed è un esordio potente, di quelli che non ti aspetti da un’opera prima: sceneggiatura equilibrata e ben scritta, regia virtuosa senza gli eccessi di lirismo di chi sa di valere e non ha bisogno di dimostrarlo ad ogni inquadratura, un cast di facce-giuste-nei-ruoli-giuste dove Toni Servillo è l’indiscussa punta di diamante cui spetta il dialogo cult nello studio televisivo e il ruolo di arbitro/giustiziere di un gioco perverso. In nuce c’è tutto il cinema futuro di Sorrentino e di uno stile che sublimerà ne Il Divo: dal passato che nasconde i mostri dell’anima all’amore per i personaggi borderline (che si faranno sempre più estremi, vedi il Cheyenne di Sean Penn o l’inquietante Geremia de' Geremei de L’amico di famiglia), dal destino che schiaccia i perdenti alle storie che sembrano sospese in uno spazio senza tempo anche quando trattano fatti realmente accaduti. L’uomo in più dimostra un talento narrativo innato, una forza visiva e d’immaginazione che riesce a far percepire con immediatezza anche quello che non mostra esplicitamente: curioso come a fine film il sottoscritto fosse sicuro di aver visto il gol in rovesciata di Pisapia, quello che uno stopper fa una volta sola nella carriera. E invece non si vede nessuna azione, nessun cross, nessun dribbling: sarà la deformazione tutta italiana per cui il calcio lo vivi fin da piccolo, però anche la bravura registica contribuisce fattivamente a far sì che lo spettatore risvegli il proprio immaginario calcistico.

Sorrentino prende due perdenti, non per natura ma per imposizione esogena, e li mette su due binari che nel loro essere paralleli s’incontrano solo all’infinito, ovvero mai perché l’infinito è comunque un concetto e non un numero. Nella sua Italietta non esiste una chiara divisione tra buoni e cattivi, tutto si mischi, tutto è relativo al contesto specifico di analisi: in modo beffardo ma non inaspettato il seppur minimo riscatto finale non spetta quindi al personaggio più pulito, che come martire pagherà un prezzo troppo alto, ma a chi ci ha sguazzato in quel marcio che ora ha deciso di metterlo da parte. I will survive risuona in versione alternative-rock (cover dei Cake) sul finale, quasi come una sfida a quel sistema che ti vorrebbe vedere come lo sfasciato direttore dell’orchestrina di paese – interpretato dallo stesso Servillo – dell’ottimo Lascia perdere, Johnny! (2007) di Fabrizio Bentivoglio. E allora l’applauso sincero per una cena di pesce cucinata bene è soltanto il primo successo di una carriera-fenice rinata sotto altra forma, ma con la stessa voce bassa e la stessa paura di salire sul palcoscenico dei primi concerti.

Citando ancora il maestro dei leggendari gradoni, fisici ed esistenziali, non c’è nulla di disonorevole nell’essere ultimi. Meglio ultimi che senza dignità.

 

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alexmn 8/10

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