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7/10

Malavoglia regia di Pasquale Scimeca

Drammatico
recensione di Alessandro M. Naboni

Dal romanzo senza tempo di Giovanni Verga, il regista Pasquale Scimeca riporta ai giorni nostri la storia e le disavventure dei Malavoglia, famiglia di pescatori di Aci Trezza, Sicilia. Il film inizia in un giorno qualsiasi del terzo millennio. Il giovane ‘Ntoni dal porto osserva l’arrivo di una nave piena di clandestini.

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.

Così inizia il romanzo di Verga, il primo dell’incompiuto ‘Ciclo dei Vinti’. È il 1881 in un’Italia post-terza guerra d’indipendenza.

130 anni dopo Pasquale Scimeca riadatta la storia portandola ai giorni nostri, con tanto d’inizio tristemente attuale in cui migliaia di profughi dall’Africa sbarcano sulle coste di Marzamemi (non più Aci Trezza), provincia di Siracusa. Oltre un secolo perché tutto cambi per rimanere uguale a prima.

Le vicende della laboriosa famiglia Toscano, Malavoglia per antifrasi: la casa del Nespolo e il vecchio Padron ‘Ntoni capo famiglia con la sua saggezza popolare fatta di proverbi; suo figlio Bastianazzo, marito di Maruzza e padre di quattro figli, ‘Ntoni, Mena, Alessi e Lia; la Provvidenza, lontana anni luce dal concetto manzoniano, unico mezzo di sostentamento economico: la barca dove gli uomini della famiglia faticano ogni giorno, chi per il semplice (soprav)vivere, chi per un futuro migliore. Ma è tutto vano.

La famiglia Malavoglia è il simbolo dei vinti, borderline della vita che la ‘mano invisibile’ del darwinismo sociale schiaccia a terra non appena fanno un passo fuori dal cerchio che gli è stato disegnato attorno. L’affare che può riscattare una vita, poi il naufragio della Provvidenza, la morte di Bastianazzo, i debiti, la pazzia/depressione di Maruzza, ‘Ntoni che ritorna da Milano con le pive e i sogni musicali nel sacco, il secondo naufragio, altri debiti, la perdita dell’amata casa del Nespolo. È un vortice che trascina tutto verso un fondo la cui unica fine possibile sembra essere la morte. Sublimazione di quell’ideale dell’ostrica per cui l’uomo/ostrica può vivere bene solo se sa adattarsi all’ambiente/scoglio in cui è nato e cresciuto, rispettando valori e tradizioni che gli sono stati insegnati; quando invece s’inizia a provare un desiderio di cambiamento e di miglioramento della propria condizione, che può far allontanare dalle acque sicure della vita consueta, allora non può che finire male.

Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace com'è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui.

Scimeca non tradisce Verga. Con le necessarie licenze poetiche per un riadattamento al tempo presente, ne rispetta intenti e modi della narrazione. Come il verismo lega la fotografia oggettiva della realtà sociale e umana, caratteristica propria dei naturalisti (Zola, De Maupassant), al desiderio di far trasparire/percepire il punto di vista di chi scrive, anche il regista siciliano sa essere osservatore imparziale-ma-necessariamente-partecipato dell’anti-spettacolo della vita, negli aspetti piacevoli e in quelli sgradevoli senza alcuna discriminazione. Si sottrae alla fiumana della realtà ‘studiata’ per analizzarla con la minor soggettività umanamente possibile, conscio forse del principio di inderteminazione di Heisenberg: il semplice guardare, alcune volte, cambia il fatto e l’osservatore non può sapere cosa sia successo realmente o cosa sarebbe accaduto se non ci si fosse messi di mezzo (Coen docet). Un limite che naturalisti e veristi probabilmente non avevano colto.

Gran facce di attori non professionisti (come nell’inarrivabile ‘La terra trema’ di Visconti ispirato sempre dal romanzo di Verga), linguaggio ruvido che sa farsi poetico, macchina a mano (digitale - RED) per braccare personaggi ed emozioni, uso del dialetto per non mediare una storia che va raccontata come viene vissuta. Scimeca dà il meglio nel raccontare la famiglia, l’importanza dei valori e delle radici, l’ostinata-fino-a-quando-è-possibile volontà di padron ‘Ntoni nel tenere uniti i familiari smarriti/schiacciati sotto il peso delle continue sventure, perché solo stringendosi l’uni agli altri è possibile resistere alle tempeste della vita, alle insidie del gambero o del coltello del palombaro che stacca le ostriche dallo scoglio. Gli manca però il coraggio per essere veramente incisivo, per stigmatizzare e denunciare con forza quanto non funziona nel presente del nostro paese.

Il finale non è segno di speranza, che in realtà è una trappola, quanto una riconferma della tesi iniziale sulla condizione esistenziale. I vincitori di oggi sono soltanto i vinti di domani: la ruota del progresso gira così, grandiosa vista nel suo insieme, brutale e spietata nel particolare. Pessimismo molto attuale nell’italietta di oggi, ma forse non condivisibile. O per lo meno sarebbe meglio se non lo fosse, altrimenti non varrebbe nemmeno la pena di sognare.

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