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6/10

Il Disertore regia di Vsevolod Pudovkin

Drammatico
recensione di Leonardo Romano

Germania 1933. Un operaio comunista che medita di passare con i socialdemocratici a causa di recenti delusioni politiche, viene mandato dal Partito a Mosca, ove decide di stabilirsi, entusiasmato dai successi del socialismo. Dopo del tempo, viene a sapere che il funzionario che l'aveva mandato in URSS è stato ucciso dai nazisti. Questo gli fa capire che il suo posto è in Germania farà a Berlino per lottare con i suoi vecchi compagni. 

Gene Kelly, nei panni di Don Lockwood in Cantando sotto la pioggia, rispondeva semplicisticamente a Donald o’ Condor, il suo amico Cosmo Brown, che per fare un film sonoro bastava girarlo come un film muto mettendoci però le parole. Ed infatti il primo film della coppia LockwoodLamont, Canaglia reale, verrà girato così con esiti risibili se non addirittura disastrosi.

Il caso de Il disertore è in parte diverso, ma non troppo.

In effetti Pudovkin sembra aver quasi seguito il “metodo Lockwood”: ottiene dagli attori una interpretazione spaventosamente enfatica, plateale (molto “russa” e teatrale).

Talvolta con esiti involontariamente grotteschi.

Più che altro, dopo gli esiti folgoranti della “trilogia della rivoluzione” (La madre, La fine di San Pietroburgo e Tempeste sull’Asia), questo grande maestro del cinema – come del resto tutti gli altri suoi colleghi, compreso “Sua Maestà” Ejzenstein – dovette piegare la sua poetica rivoluzionaria, futurista ed immaginifica alle tiranniche esigenze imposte da Zdanov (una delle tante emanazioni di Stalin) e dal “realismo socialista”. In realtà Pudovkin, in questo film, lo fa parzialmente, non rinunciando a soluzioni formali opposte alle direttive zdanoviane attraverso un uso del montaggio ancora molto avanguardista e un uso piuttosto deciso del sonoro in asincronia (espediente già usato da Vertov nel suo Sinfonia del Donbass, cosa che procurò ad entrambi accuse di “intellettualismo”), però non può prescindere del tutto dai diktat della politica culturale del Pcus. Il che si riflette assai pesantemente nel film che, ai nostri occhi di italiani (anche di sinistra) del XXI secolo, non può non risultare disomogeneo e bifronte.

Le colpe di Pudovkin sono molto relative: eravamo nella primi Anni Trenta, Stalin aveva fermamente in mano il bastone del comando e la politica suicida del “socialfascismo” era un dogma a cui nessuno doveva derogare. Nemmeno il grande cineasta sovietico che è costretto a descrivere i socialdemocratici come esseri infidi da cui guardarsi al pari delle canaglie naziste.

Così, di fronte ad inquadrature di massa di una perfezione da gruppo marmoreo del Partendone ben valorizzate da una mobile macchina da presa (come nella sequenza dei marinai tedeschi in sciopero), alla sagace ed irridente ironia con cui vengono ridicolizzati i capitalisti tedeschi, ben vestiti e su macchine di lusso, che si trovano bloccati nel traffico dagli scioperanti, siamo costretti a doverci sorbire sequenze tronfie e fin troppo didascaliche che finiscono con l’ingolfare il ritmo del film.

È facile immaginare che dietro alle prediche ossessive, quasi idrofobe contro la socialdemocrazia e dietro l’enfatica esaltazione del produttivismo stakanovista (con gli operai felici e contenti di spaccarsi la schiena per raggiungere i deliranti standard imposti dal primo piano quinquennale. Tra l’altro nella cornice di un Urss che pare un villaggio Valtour proletario in cui tutti sono allegri e felici. Ma siamo sicuri che sia andata davvero così?) ci sia la longa manus di Zdanov e non certo l’intelligenza di un genio come Pudovkin che, negli anni precedenti, pur facendo propaganda rivoluzionaria per il regime sovietico, non era mai caduto nello sciocco schematismo. Qui invece riscontriamo un infantile manicheismo sicuramente imposto al grande cineasta, che ha dovuto suo malgrado cedere (e lo spettatore attento capirà al volo quali saranno le parti del film appiccicate con lo sputo direttamente dal Cremino. In più con sequenze mute che battono 2 a 0 quelle  sonore, inficiate da dialoghi d’una banalità terrificante).

Come ho detto all’inizio, il vero problema del film sta proprio nel fatto che le sequenze sonore sembrano quelle del suddetto Canaglia reale: scene di un film muto (con tanto di gestualità plateale da filodrammatici di quart’ordine) a cui qualche buontempone ha avuto la malsana idea di attaccarci dei dialoghi piuttosto imbarazzanti. Come se a Leningrado e Odessa, le due città in cui fu girato il film, ci fosse stato un Paolino Ruffini ante-litteram.

Quindi una stroncatura senza appello?

In realtà non lo sarebbe: perché il film ha notevoli pregi formali e mostra ancora come il vecchio leone del cinema sovietico fosse pronto a ruggire, ma ricordate ciò che ha detto Orazio? “Ogni tanto anche Omero sonnecchia” e Pudovkin si trova in una situazione di gran lunga peggiore: è costretto a sonnecchiare.

Si potrebbe dire che se il film fosse stato muto e se a Pudovkin fosse stato lasciato ampio margine di manovra, forse ci troveremmo di fronte a un altro suo grandioso capolavoro. Ma, com’è facile arguire, nessuna di queste due cose si è verificata e in questo Disertore convivono (talvolta sciaguratamente) uno splendido film e un banale volantino di propaganda, schematico e girato con una piattezza sconfortante (con la prevalenza di figure intere intervallate da qualche primo piano).

Quindi facendo la media fra l’eccelso e l’orrendo, non ne può uscire se non un film discreto o talvolta molto buono. Lo si può guardare, ma se ne può forse anche prescindere senza eccessivi rimpianti.

Un capolavoro a sprazzi. Quindi, di fatto, non un capolavoro (col rimpianto per l’occasione mancata).

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