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7/10

La Orca regia di Eriprando Visconti

Thriller
recensione di Francesco Carabelli

La giovane studentessa Alice viene sequestrata a scopo di riscatto e portata in un casolare in campagna. Dovrà convivere con i suoi aguzzini, instaurando un rapporto a sfondo sessuale con uno di essi....

Film  scabroso, che suscitò molto scalpore alla sua uscita negli anni ’70, per alcune scene molto esplicite, la pellicola è opera matura del nipote di Luchino Visconti, Eriprando Visconti, figura singolare del cinema italiano di quegli anni.

Di suo si ricorda il seguito di La Orca, ovvero Oedipus Orca e film come Una spirale di nebbia (che vede tra le attrici la musa di Truffaut, Claude Jade) e Malamore. Si ritirò presto dalla vita cinematografica attiva, per problemi di salute, ma seppe con le sue opere innovare, spingendo oltre la camera, esplorando senza pudori i corpi umani e la sessualità.

Un cinema d’autore per l’accuratezza dei dettagli, per la ricercatezza della fotografia, delle scenografie, per la scelta sempre calibrata delle musiche (in La Orca sperimenta le musiche elettroniche prodotte dal sintetizzatore e composte dall’allora in voga Federico Monti Arduini-Il Guardiano del Faro), ma che sa osare anche partendo da storie che, a prima vista, potrebbero sembrare banali, ma comunque radicate nel contesto sociale di quegli anni (anni settanta).

La storia è infatti la storia di un rapimento a fine di estorsione: una giovane studentessa viene rapita da una banda di squinternati, che la segrega in un casolare della provincia pavese e chiede un cospicuo riscatto al padre. Questi, tuttavia, non si lascia raggirare, costringendo la figlia a un prolungato sequestro ove dovrà subire le sevizie del gruppo di deliquenti.

Ma ciò che è singolare è il rapporto che si viene a costituire tra la ragazza (interpretata da una magnifica e bravissima Rena Niehaus) e uno degli aguzzini, un giovane Michele Placido.

Si tratta di una vera e propria sindrome di Stoccolma, come già avevamo visto ne Il portiere di notte della Cavani, ma con dei risvolti particolari.

L’amore tra carceriere e prigioniera è un amore morboso: Placido si lascia andare a molte fantasie erotiche che realizza a volte di soppiatto, altre volte apertamente; la ragazza non sembra turbata da questo comportamento, ma lo asseconda e lo stimola, salvo poi rinnegarlo nel finale.

È proprio il finale che ci sorprende perché rivela la natura ambigua della protagonista, e ne svela le pulsioni più profonde, sovvertendo le carte in tavola.

Vi è in nuce una critica di Visconti alla società, quasi che la gente semplice, debba fare i conti con l’ambiguità di certa borghesia altolocata, che ne approfitta della propria posizione per tenere un atteggiamento moralmente ambiguo.

È un sentire comune di certo cinema di quegli anni, basti pensare al cinema di autori come Aldo Lado, che tratteggia figure molto ambigue in pellicole come L’ultimo treno della notte.

I personaggi, seppur spesso macchiettistici, sono ben calibrati e costruiti, rifacendosi a degli stereotipi tipici del cinema di genere.

Le scene esplicite  consigliano la visione di questo film ad un pubblico adulto, e potrebbero comunque turbare i più sensibili.

Erotismo e critica sociale si intersecano regalandoci una pellicola che potrebbe richiamare per i suoi toni, (con i dovuti distinguo) il cinema messicano di Carlos Reygadas. Un cinema che cerca strade nuove nel panorama del film d’autore.

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