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8/10

L'Uomo Che Verrà regia di Giorgio Diritti

Guerra
recensione di Alessandro Pascale

Nell'inverno 1943-1944 sull'appennino emiliano, la piccola Martina (Greta Zuccheri Montanari), di otto anni, vive con i genitori e con la numerosa famiglia contadina, che fatica ogni giorno per sopravvivere. Dalla morte del fratello più piccolo Martina ha smesso di parlare e questo la rende oggetto di scherno da parte dei coetanei. Tuttavia il suo sguardo sul mondo che la circonda è molto profondo: la seconda guerra mondiale arriva anche sulle sue colline ricoperte di neve, con la presenza sempre più invadente di soldati tedeschi e squadre di partigiani. Lena (Maya Sansa), la madre della bambina, resta nuovamente incinta e Martina segue con attenzione i nove mesi della gestazione, mentre le complesse vicende della guerra si intersecano con la quotidianità della vita contadina: il bucato, le ceste intrecciate nella stalla, la macellazione del maiale, gli amoreggiamenti dei giovani, la Prima Comunione.

Il fratellino di Martina nasce in casa, a fine settembre del 1944. Allo spuntar del giorno le SS arrivano nelle campagne bolognesi, mettendo in atto un feroce rastrellamento, che verrà ricordato come strage di Marzabotto...

 

Giorgio Diritti colpisce ancora, e dopo i riconoscimenti ottenuti per l’ottimo Il vento fa il suo giro ci regala una delle più belle pagine del cinema italiano recente, illustrando con incantevole piglio uno degli episodi più orribili della storia italiana: la strage di Marzabotto in cui centinaia di persone vennero massacrate senza pietà dai nazisti. Diritti riesce a raccontare questo evento in maniera asciutta e pacata, senza lasciarsi andare a politicisim retorici o ad un facile sentimentalismo.

Il taglio viene mantenuto il più oggettivo possibile, e non è un caso quindi che la narrazione sia quasi interamente focalizzata sulla piccola Martina, una bambina di otto anni che ha smesso di parlare da quando le è morto il fratellino tra le braccia. Attraverso i suoi occhi innocenti seguiamo dapprima le vicende tipiche della vita di campagna di quegli anni, con un tocco che per certi versi ricorda la grazia con cui Bertolucci immortalava la vita contadina in Novecento. Qui però il motivo militante rimane sullo sfondo e l’unica concessione palese è il fazzoletto rosso che vediamo stretto attorno al collo di tutti i partigiani. Perfino il risalto dato all’antifascismo militante non è una scelta scontata e idilliaca, come dimostrano le titubanze e i dubbi di vecchi e giovani sul da farsi riguardo agli invasori tedeschi.

Se però nella prima parte Diritti opera una transizione tra rappresentazione della vita contadina e esemplare ricostruzione psico-sociologica di una numerosa famiglia d’altri tempi (lasciandosi andare in maniera liberatoria ad episodi più futili e innocenti) è nella seconda parte che emerge tutto il contenuto politico dell’opera: le poche immagini degli scontri tra partigiani e tedeschi hanno qualcosa di epico; le figure dei sacerdoti antifascisti e il loro sforzo di fare il bene dei propri parrocchiani sono lodevoli; infine la rappresentazione delle stragi, pur non indulgendo eccessivamente sulla stampa visiva di tali immagini (come ha fatto invece poco tempo fa Spike Lee in maniera cruda ma efficace in Miracolo a Sant’Anna) sembra perfettamente intonata con il registro generale del film, teso a mantenere un tono medio immune dai colpi di scena e dalle passioni esasperate. I personaggi sono contadini e come tali vivono di tradizione, esperienza vissuta e prudenza. I partigiani sono giovani popolani inesperti e ingenui, nonostante lo spirito volenteroso. Perfino i soldati nazisti mostrano spesso il loro tratto più umano, tra paure, solidarietà e isolati rifiuti di sparare su una folla inerme.

È il rifiuto del bianco/nero in nome di una più generale esaltazione della complessità dell’essere umano. Dal punto di vista stilistico Diritti sfodera un registro assai colto che trae la sua linfa dal filone neorealista più umile e genuino (l’uso del dialetto applicato alla vita contadina obbliga di ricordare L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi), rinvigorito da un’influenza particolare subita dal timbro fiabesco zavattiniano, che non porta però ad annullare gli elementi di profonda drammaticità di cui è impregnato il finale.

Un accenno importante va dato anche allo stile ricercato dell’autore, che si lancia spesso in soggettive camere a mano di forte impatto, catturando un’ottima fotografia anche nei momenti più statici. In definitiva il giudizio non può che essere molto positivo. L’uomo che verrà è un film che unisce sincerità, semplicità, drammaticità e fiaba entrando di diritto nel filone del più riuscito cinema impegnato italiano contemporaneo.

V Voti

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alexmn 9/10

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