Un Giorno Devi Andare regia di Giorgio Diritti
DrammaticoDolorose vicende familiari spingono Augusta, una giovane donna italiana, a mettere in discussione le certezze su cui aveva costruito la sua esistenza. Su una piccola barca e nell'immensità della natura amazzonica inizia un viaggio accompagnando suor Franca, un'amica della madre, nella sua missione presso i villaggi indios, scoprendo anche in questa terra remota i tentativi di conquista del mondo occidentale. Augusta decide così di proseguire il suo percorso lasciando la comunità italiana per andare a Manaus, dove vive in una favela. Qui, nell'incontro con la gente semplice del luogo, torna a percepire la forza atavica dell'istinto di vita, intraprendendo il "suo" viaggio fino ad isolarsi nella foresta, accogliendo il dolore e riscoprendo l'amore, nel corpo e nell’anima. In una dimensione in cui la natura assume un senso profetico, scandisce nuovi tempi e stabilisce priorità essenziali, Augusta affronta l'avventura della ricerca di se stessa, incarnando la questione universale del senso dell'esistenza umana.
Alessio Colangelo (voto 9):
"se vuoi cambiare le cose devi andare dove le cose bisogna cambiarle"
Immersi sin dalle prime scene nella parte più selvaggia della foresta amazzonica capiamo che l’ultimo film di Giorgio Diritti non contraddice la sua estetica e poetica cinematografica anche cambiando la location. Nel suo primo film, Il vento fa il suo giro, ci mostrava una realtà contadina difficile, dispersa nelle vallate occitane, una natura tendente a sopraffare l’uomo e una vita agreste spogliata dei valori di solidarietà e condivisione, nel secondo, L’Uomo che verrà, ci mostrava invece gli orrori della strage di Marzabotto vista dalla prospettiva innocente di una bambina. Nel suo terzo film non siamo più in Italia, ma in una delle zone più lontane, “quasi alla fine del mondo” (L’Amazzonia), in un paese che cerca un equilibrio tra la tradizione indigena e la modernità che incombe, sempre più vicino a una realtà semplice che conserva rapporti umani ormai estinti nella società del progresso o cosiddetta civilizzata. La storia racconta di Augusta, una donna segnata da dolorose vicende familiari, che decide di recarsi in Amazzonia insieme a suor Franca. Presto scoprirà che nel suo viaggio si nasconde l’avventura della ricerca di se stessa, il viaggio interiore le farà riscoprire la propria vera identità e il senso della propria esistenza. Girato come tutti i suoi film precedenti in tre lingue necessita di sottotitoli per le parti in portoghese e in dialetto indios. La scelta linguistica molto apprezzata e coraggiosa ci consente di immergerci veramente nella realtà che il film vuole raccontare, essendo la lingua un importante strumento di riconoscimento tradizionale e culturale. L’idea del film nasce in un documentario intitolato Con i Miei Occhi (2011) , di cui suggerisco la visione a completamento del film stesso, della durata di una cinquantina di minuti che Diritti aveva realizzato proprio tra Manaus e le zone tribali dell’ Amazzonia.
Iniziando il film con una scena che mostra due immagini sovraimpresse (un’ecografia di un feto in dissolvenza e il cielo lunare oscurato dalle nuvole) Diritti anche questa volta concentra il suo interesse verso due aspetti importanti della realtà che si trova davanti: quello umano e quello naturale. Nella ricerca di un incontro tra due mondi spesso conflittuali il regista osserva la realtà con lo sguardo attento e meticoloso che da sempre contraddistingue i suoi film, mescolando uno stile più narrativo con uno maggiormente documentaristico e raggiungendo una fedeltà nella riproduzione del reale di sicuro impatto emotivo; le sequenze nella favelas di Manaus sono di grande effetto, non risparmiano di mostrare il vero degrado che si nasconde nelle vie strette, tuttavia lo contestualizzano in un complesso discorso sulle radici, tradizioni e sul senso di appartenenza. Il film alterna scene ambientate nelle baraccopoli a momenti di pura contemplazione del paesaggio, scene non ripulite, non ricercate che mostrano il Rio delle Amazzoni nella sua maestosità e nella sua potenza visiva. Diritti svuota sempre i suoi film dalle componenti di pregiudizio che potrebbero nascere nello spettatore, e ci riesce, aderendo maggiormente al reale, documentandosi meticolosamente su quello che deve essere mostrato, non un’immagine fuori posto che potrebbe fuorviare o addirittura ricostruire in modo falsato una realtà fatta di persone ed esseri umani di solito ai margini di una società che non ha alcun interesse nei loro confronti (o forse ce l’ha nei modi sbagliati) e che troppo spesso sono vittime del pregiudizio o di valutazioni astratte. Il viaggio nella prima parte del film è la (ri)scoperta dei rapporti umani più sinceri, possibili solo nelle baraccopoli, in quei luoghi contaminati e inquinati dalla violenza del progresso, rapporti che cercano di riscoprire il vero senso della vita. Nella seconda parte anche in quei luoghi i rapporti che si instaurano possono diventare fittizi, contraddistinguersi dalla perdita di umanità, non resta quindi che allontanarsi, uscire dalla comunità per rifugiarsi in un luogo ancora più selvaggio. È ciò che succede nel finale quando la protagonista si abbandona su una spiaggia deserta. Diritti esclama a gran voce il bisogno primario di tutti gli uomini di riconciliarsi con la natura e di partire nella costruzione di se stessi da coloro che sono più vicini alla terra, come i bambini indios ancora puri e non consapevoli di quel lato del pianeta che distrugge la nostra umanità. Un film di ricostruzione, di relazione e, come sempre in Diritti, di profonda riflessione. Sono numerosi i piani-sequenza, specie nella rappresentazione dei panorami naturali mentre la protagonista viene spesso raffigurata in figura intera per non rischiare di tralasciare i dettagli ambientali. Dal punto di vista dei colori il film alterna le scene in Amazzonia con cromatismi verdi, azzurri e bianchi, alle scene girate in Trentino, dove risiede la madre della protagonista, tutte girate con toni grigi, cupi, a rappresentare una società montana imborghesita che ha perso il contatto con la natura e dove gli animi sono sempre più inariditi.
Il film è anche un viaggio spirituale: attraverso il contatto con la natura si può ritrovare la fede autentica, che non ha niente a che vedere con la religiosità delle missioni cattoliche che non sanno spiegare quella realtà, limitandosi a imporre un “credo” che le popolazioni indigene semplicemente non capiscono e lo fa con la testardaggine e l’arroganza propria di un cristianesimo capace solo di parlare ma non di ascoltare. L’ altro aspetto delle missioni, quello peggiore, è l’arrivo dei predicatori che “comprano” la fede con una televisione regalata agli indigeni o creando villaggi turistici dove sfruttare una cultura millenaria con dei balli folkloristici a comando. Tuttavia nella raffigurazione del cristianesimo c’è in questo film una fascinazione eccessiva, testimoniata dalle numerose scene di preghiera che coinvolgono sia suor Franca che la madre della protagonista, che suona talvolta leggermente retorica; del resto Diritti è erede di Olmi, esce da Ipotesi Cinema, e in questo film egli ha voluto soffermarsi anche sulla componente sacra che nei primi due film aveva solo abbozzato. Dichiara lo stesso regista: “Mi interessava indagare anche quell’ambito in cui la storia di una singola persona nel momento in cui affronta una crisi intima può in realtà diventare un’occasione di messa in discussione e di ricerca, seppur dolorosa, per una nuova possibilità di vita, più affine, che le assomiglia di più, dunque più autentica. E in questo senso, la storia di uno è in realtà la vicenda umana di tutti, universale.” Gli ideali di condivisione, di uguaglianza e di tolleranza sono i cardini del cinema di Giorgio Diritti convinto che solo con la solidarietà umana si possano risolvere i problemi. È un’ umanità ritrovata all’ interno di un pianeta che non vuole solo essere calpestato, ma coltivato.
Vi chiederete cosa fanno gli indios di fronte alla situazione disperata nella quale si trovano, fanno la cosa più improbabile e difficile da capire per noi occidentali: sorridono. Tutti sorridono perché conoscono la vera felicità, ed ecco che le miserie della realtà non sono più miserie dell’ anima. Un giorno devi andare, un giorno devi vedere, un giorno devi godere del meraviglioso spettacolo della natura amazzonica.
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Fulvia Massimi (voto 8):
In occasione della sua presentazione al Sundance Film Festival nel gennaio scorso, The Hollywood Reporter lo ha definito "una storia serena e profonda, basata sulle atmosfere più che sulla trama", mentre Variety lo ha indicato quale esempio emblematico della capacità cinematografica europea di "penetrare ancora la coscienza ed il mercato domestico". Dopo aver riscosso le lodi della critica statunitense, l'opera ultima di Giorgio Diritti, Un giorno devi andare, si prepara dunque ad ispirare quella italiana, che con un film simile, afferma Roy Menarini, deve necessariamente misurarsi.
In epoca di sbandierata e comprovata crisi del cinema italiano, tanto in termini artistici che produttivi e di riscontro spettatoriale, la pellicola di Diritti si presenta infatti come un vero e proprio miracolo, in grado, forse, di segnare l'avvento di una nuova cinematografia. Ed è nella fragilità e nella magmaticità del lavoro del regista bolognese che sempre Menarini individua l'essenza di tale potere rigenerativo, non già nell'armonia ben costruita della struttura narrativa o dell'apparato visivo, poiché, sostiene a ragione Jasmine Trinca, è l'emozione ad appartenere all'arte, non la perfezione o la compiutezza.
Diritti si confronta con l'arduo compito di replicare, per non dire subissare, il successo internazionale de L'uomo che verrà, e lo fa realizzando un film fortemente voluto, affatto sospinto da logiche commerciali, ma sostenuto invece dalle ragioni dell'istinto e del sentire. La sua è, a costo di suonare arroganti, un'opera universale nella forma così come nel contenuto, un film capace di inaugurare in Italia un nuovo cinema di pensiero, fondato sulle assenze, i silenzi, e la contemplazione di una bellezza priva di parole, ma carica di valori necessariamente da riscoprire, soprattutto nell'epoca dell'infelicità generata da un progresso che innova, ma al tempo stesso inaridisce l'umanità.
Non v'è dunque alcuna casualità, né tantomeno imposizione produttiva (causa fallimento del progetto di partnership con i produttori locali), nella scelta della location brasiliana. Diritti abbandona i luoghi perfettamente conosciuti delle valli piemontesi (Il vento fa il suo giro) e dell'appennino emiliano (L'uomo che verrà) per ritornare nei territori solo parzialmente esplorati nel 2002 in Con i miei occhi, documentario ambientato appunto nella foresta amazzonica.
La realizzazione del suo terzo lungometraggio per il cinema diventa dunque per il regista l'occasione di rivedere quegli stessi luoghi alla luce di un rinnovato interesse per i temi della fede e della ricerca della felicità, della necessità, cioè, di riscoprire le priorità della vita, annientate dalla pesantezza dei ritmi della modernità e dalla difficoltà di affrontare il dolore e la solitudine nella società contemporanea.
L'incontro di Augusta con la natura incontaminata e incontrollabile (anche in fase di realizzazione filmica) del Brasile, e con l'alterità non occidentale che la accoglie nel proprio ventre comunitario, diventa per lo spettatore, oltre che per la protagonista, un viaggio spirituale che trascende la rigidità missionaria dell'imposizione della fede cattolica o dello sradicamento delle tradizioni (utilizzate come forma di intrattenimento per turisti), facendosi esperienza assoluta.
I luoghi, mai idealizzati ma sempre vibranti, veritieri, a tratti crudeli, del cinema di Diritti rivivono, vivificati, nella bellezza spontanea e parzialmente incorrotta dei paesaggi amazzonici, a loro volta esaltata dalla straordinaria fotografia di Roberto Cimatti. Il mutismo della natura, immobile e fieramente esposta alla contemplazione, si riflette nella diluizione dei dialoghi, nella progressiva scomparsa di una parola che non serve, e nella rarefazione di una musica - quella composta da Daniele Furlati e Marco Biscarini - fatta di sottrazioni e "fasce sonore che galleggiano in mezzo al vuoto".
Ed è esattamente questa la sensazione provata di fronte alla maestosità delle immagini, all'impossibilità dolorosa ma sublime della natura che non si può abbracciare, e sulla cui scia silenziosa affiorano le parole di Simone Weil e della sua Attesa di Dio. La fede cercata da Augusta nella missione cattolica di evangelizzazione si tramuta in ricerca di pace e di grazia, in un'altra forma di credenza che viene dal contatto con l'esperienza reiterata della morte, con la semplicità effimera di una danza collettiva, e con la riscoperta dei valori puri della semplicità, dell'amore, del rispetto del corpo in tutte le sue parti (come testimoniato dalla splendida preghiera finale di Janaina).
Diritti non ha la presunzione di credere che si possa davvero rispondere agli interrogativi della fede con un film, ma il suo è un tentativo encomiabile di interrogarsi sulla sensazione di un altrove che potrebbe esistere oppure no, e che sembra infine coincidere con le parole, attualissime, del Papa neo-eletto sulla necessità, comune a tutti gli uomini, fedeli o meno, di perseguire la ricerca della verità, della bontà e della bellezza. Quella bellezza che, per Simone Weil, era segno tangibile dell'incarnazione di Dio nel mondo.
Con la complessità teologica e filosofica dei suoi contenuti, l'opera di Diritti tocca nel profondo, avvicinandosi, specialmente nelle magnifiche sequenze finali, ad esperienze cinematografiche emotivamente estreme come quelle incarnate dai lavori di Terrence Malick. L'avventura del film di Diritti si dispiega fin dal suo apparato pre-produttivo, con il coinvolgimento della Lumiere & Co. di Lionello Cerri, dei finanziamenti di Eurimages e del partner di co-produzione francese, a sostegno di un'opera difficile ma necessaria per la sopravvivenza stessa del cinema italiano, non più bacino culturale ristretto ma esperienza finalmente e veramente internazionale.
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