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5/10

Il Cuore Grande delle Ragazze regia di Pupi Avati

Sentimentale
recensione di Alessandro M. Naboni

Italia anni ’30. I Vigetti (soprav)vivono coltivando un terreno in affitto nella bassa padana. Padre, madre e tre figli. Quando la concessione della terra rischia di non essere rinnovata, l’unica possibilità di salvezza è quella di far sposare il primogenito, bel giovanotto dall’alito di biancospino e conteso da tutte le ragazze del paese, con una delle figlie zitelle della famiglia Osti, arricchiti proprietari terrieri. Tutto sembra andare per il verso 'giusto' finchè non si mette di mezzo l’amore, quello vero. Pupi Avati torna con la sua terra, i suoi personaggi borderline, la nostalgia del passato e un’agrodolce commedia sentimentale.

A scuola facevo temi più corti di tutti..non pensavo avrei scritto un romanzo.

Pupi Avati (bolognese doc) avrebbe potuto pensare tra sé a queste parole dopo una lunga carriera di italico cantore: una laurea in Scienze Politiche, quattro anni terrificanti tra i surgelati della Findus, una carriera da jazzman nella Doctor Dixie Jazz Band stroncata dall’arrivo del talentuoso Lucio Dalla, poi un misterioso imprenditore gli da’ i soldi per girare i suoi primi due lungometraggi, spaghetti-horror grotteschi e orgogliosamente home-made. Il resto è storia del cinema italiano, tra casereccia passione per i film di genere e il racconto della sua Italia, quella di provincia genuinamente crepuscolar-borderline. Con gli anni il suo lucido sguardo d’autore si è annebbiato rinchiudendosi in una spirale auto-poietica di Nonaka dove il regista ha continuato a raccontarsi (addosso) campando di rendita: gira a vuoto tra amici del bar e cene per farli conoscere, brilla con il cuore altrove di seconde notte di nozze, manca occasioni con un figlio più piccolo e quella stupenda faccia d’attore di De Sica.

La voce fuori campo, pane-e-mortadella, di Alessandro Haber (un altro bolognese doc), appioppata senza un particolare movente narrativo al fratello minore del protagonista, rassicura lo spettatore avatiano e ci guida discreta nel suo mondo. Italia, anni ’30. La prima guerra mondiale è passata da tempo, la seconda è dietro l’angolo, ma nella campagna profonda è soltanto uno spettro troppo lontano dal vivere quotidiano. Ecco il paese, il piccolo mondo di un mondo piccolo, piantato in qualche parte dell'Italia del nord. Là in quella fetta di terra grassa e piatta che sta fra il fiume e il monte, fra il Po e l'Appennino. Come il baffuto Giovannino Guareschi descriveva la Brescello di Don Camillo&Peppone, così Avati dipinge la sua Bassa senza tempo, fuori dalla Storia vera (fascismi a parte) e impegnata a sopravvivere alle difficoltà di tutti i giorni.

I Vigetti vivono coltivando a mezzadria un podere, tanto lavoro e un’umile vita contadina. Padre (l’ottimo Andrea Roncato), madre e tre figli. Carlino, il maggiore, è lo sgallettato playboy del paesello con l’alito-di-biancospino cui nessuna sa resistere e il physique du role di Cesare Cremonini, perfetto inconsapevole della vita. Completano il quadretto bucolico il fratello del capofamiglia con la compagna Sydne Rome, monocola ex prostituta. L’arricchito proprietario terriero dalle braccia corte, Sisto Osti, è l’attore feticcio Gianni Cavina con moglie romana arrivata quasi vergine al matrimonio e due figlie da maritare, zitelle fuori-tempo-massimo. Quando la concessione del terreno rischia di non essere rinnovata, l’ultima ancora di salvezza per i Vigetti è proprio quel farfallone di Carlino: conciato negli abiti della festa per fare la corte alle due figlie-cesso dell’Osti, Maria e Amabile, ragazze da leccarsi le dita, mica come le zoccole tue. Dieci anni d’affitto e una moto Guzzi fiammante in cambio di un matrimonio. Imbarazzati incontri serali sul divanetto della casa padronale tra birilli, giochi infantili e un sottotesto sessual-bigotto con l’occhio all’orologio e la mente altrove, non un luogo preciso ma di sicuro non lì. Quando tutto sembra fatto, a rovinare i piani arriverà l’amore, quello vero, con l’aspetto coatto-quanto-basta di Micaela Ramazzotti, figlia pre-matrimoniale. Il classico colpo di fulmine che per concretizzarsi rischia i colpi di fucile.

Le agrodolci cronache familiari troppo spesso (s)cadono in semplice macchietta divertente, senza incidere quanto potrebbero. Sacralità del ciclo vita-morte a passeggio con il sesso onnipresente, superstizioni, saggezza popolare e pettegolezzi in un innocuo mix depotenziato. Le solite facce giuste nella solita scampagnata nostalgica cui non bastano sincerità e punte di pruriginosa cattiveria/ironia per ricordare passate gite scolastiche. Bigiotteria avatiana.

Da ormai più di dieci anni Pupi Avati realizza un film all’anno a un ritmo che ricorda, pur senza possibilità di eguagliarlo, quello del newyorkese e quasi coetaneo Woody Allen (ogni anno, a partire dal 1977, ha visto un suo film al cinema). Se con l’avanzare della carriera molti registi con lo status di ‘autore’ tendono a far passare un tempo crescente tra una pellicola e l’altra (Malick e Kubrick ne sono l’esempio altissimo), questi due nati negli anni ’30 fanno sicuramente eccezione con la loro prolifica vena narrativa. Forse non è un azzardo riciclare per il nostro Pupi la definizione coniata dal critico Gianni Canova per l’ultimo film di Allen: cinepanettone per radical chic. Riflessioni pour parler (?)

Provocazioni a parte, rimane l’indubbio talento di cantastorie, come quei vecchietti (senza offesa) che seduti al baretto-con-il-bianco ricordano i bei tempi andati, e quello di saper tirare fuori il meglio da attori non professionisti o mal utilizzati. Ogni riferimento a Christian De Sica non è puramente casuale. La scanzonata colonna sonora del clarinettista Lucio Dalla (si, anche lui bolognese doc) è l’inevitabile commento musicale alle avventure della bassa padana.

Quando non ti ricordi qualcosa devi andare davanti al cimitero, lì ci sono tutti i ricordi. Anche quelli meravigliosi di Una gita scolastica di quasi trent’anni fa.

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alexmn 5/10

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