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7/10

The Housemaid regia di Sang-soo Im

Drammatico
recensione di Alessandro M. Naboni

Euny viene assunta come aiuto domestica nella casa di una ricca famiglia alto borghese. Hoon, l’altezzoso padrone di casa, la seduce e ne fa la sua amante più-o-meno segreta. Da quel momento nella casa tutto inizierà velocemente a precipitare verso il baratro. Premio speciale della giuria al Noir in Festival di Courmayeur.

La giovane Euny osserva una sagoma sull’asfalto e le tracce di sangue lasciate qualche ora prima dal corpo esanime di una ragazza che si era suicidata buttandosi da un palazzo. Quasi una visione rivelatrice. Il suicidio non è soltanto l’atto estremo con cui una persona decide di togliersi la vita, è anche il tragico/necessario veicolo per trasmettere un messaggio forte che altrimenti non verrebbe colto. Ma in un mondo assuefatto alla violenza delle immagini, può non essere sufficiente a imporsi allo sguardo avido di voyeur-da-reality-show.

Nel 1960 Kim Ki-Young dirigeva un film destinato a diventare leggendario nella storia del cinema sudcoreano e nei ricordi dei suoi spettatori. Hanyo (titolo del film originale) racconta la progressiva distruzione di una famiglia borghese dopo il destabilizzante arrivo di una domestica-femme fatale. Potrebbe accadere a tutti è l’inquietante messaggio finale. L’opera di Ki-Young, come altri illustri maestri d’oriente, rimarrà per una trentina d’anni invisibile nell’occidente cinematografico che proprio nel 1960 produceva capolavori come La Dolce Vita e Psycho.

Cinquant’anni dopo il talentuoso Im Sang-soo sfida il mito con un remake. Riscrittura della sceneggiatura con annesse polemiche nazional-popolari per ‘lesa maestà’, un cast di attori d’alto profilo-e-pedigree, manierismi alla De Palma per un film definito come un thriller sessual-erotico stilizzato perché ‘altrimenti la gente non sarebbe andata a vederlo’, il premio speciale della giuria al Noir in Festival di Courmayer e la partecipazione a Cannes 2010.

Euny viene assunta come aiuto-domestica a casa del (super) riccone Hoon, un viziato uomo d’affari abituato ad avere tutto dalla vita. Ha una giovanissima moglie incinta, una figlia piccola molto sveglia, una suocera perfida più di quanto sia lecito attendersi dal ruolo e una vecchia domestica prigioniera di una vita e di un lavoro che detesta pur rimanendovi fedele. Una dorata campana di vetro a cui Euny non potrà/vorrà mai fare parte. Ogni altro dettaglio sulla trama potrebbe rovinarne i risvolti narrativi.

Il film originale è un potente affresco in bianco e nero della società coreana dell’epoca. Il cinema di Kim Ki-Young, fortemente censurato dal governo, si è sempre focalizzato sull’impegno sociale e sullo studio degli istinti umani; con Hanyo la volontà era quella di esplorare una realtà vicina al vissuto quotidiano suo e di una nazione in cui la presenza in casa di una domestica e le relative tensioni sessuali erano all’ordine del giorno. La necessaria riscrittura di Im Sang-soo riflette l’evoluzione della società, i cambiamenti e le contraddizioni che hanno portato alla sparizione della classe media con conseguente apertura della forbice tra povertà e ricchezza, simbolicamente rappresentate dal prologo e dell’epilogo di The Housemaid. Ma il film è soprattutto un potente atto d’accusa verso la prepotenza della classe ricca e sull’aberrante non-umanità di non-individui freddi come robot e ridotti a vuoti simulacri di esseri umani. Statuine di plastica.

La tracotanza di chi ha sempre avuto tutto dalla vita trasfigura in assurda indifferenza di fronte all’iperbole tragica degli eventi che si palesano ai loro occhi. La regia/fotografia gelida e asettica rende ancora più bruciante la rabbia, acuisce quel senso d’impotenza per la progressiva nazi-disumanizzazione di Euny, per l’omicidio di chi ancora non sa di essere. Rabbia orientale serbata nel cuore/viscere e nella compostezza dei gesti per una cultura in cui il lancio a terra di un fazzoletto bianco, simbolo di servitù, è atto di sfrontata ribellione al sistema. Il sacrificio estremo non sarà inutile, lascerà un latente testamento spirituale negli occhi e nella mente della figlia di Hoon. Subdola vendetta da servirsi più-che-fredda.

I barocchismi della messa in scena riescono, in parte, a non essere fini a se stessi quanto un mezzo efficace per raccontare visivamente l’ostentata opulenza della famiglia in contrasto con la semplicità della bravissima Jeon Do-youn/Euny. Proprio lei, al tempo stesso domestica-amante-madre, è protagonista di eccessi hard quasi sempre giustificati dalla necessità di dare un’immagine potente e d’impatto al degrado morale dell’intera classe alto borghese. Senza scomodare Visconti, il film può essere accostato a Io sono l’amore di Guadagnino nel saper descrivere situazioni e dinamiche relazionali (‘Mi scusi di essere rimasta incinta di uno come lei’) fuori dal tempo e dalla realtà ‘vera’ e nel mettere con efficacia a confronto due mondi, ricchezza e povertà, agli antipodi.

L’hybris del regista coreano impedisce al film di arrivare con quell’immediatezza e sincerità che il tema richiederebbe. Dietro alla patina di autoreferenzialità e sensazionalismo s’intravede una pellicola che sa colpire nel segno con un notevole crescendo ritmico e narrativo, spesso però offuscato da una ricercatezza formale troppo invadente. Sono lontane l’essenzialità e il rigore dell’originale, molto più sottile ma incisivo, giustamente considerato patrimonio nazionale.

Sublime colonna sonora.

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