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8/10

127 Ore regia di danny boyle

Avventura
recensione di Alessandro M. Naboni

La storia vera delle free rider Aron Ralston (con la faccia di James Franco) rimasto bloccato per 127 ore consecutive nel Blue John Canyon, isolato dal mondo e senza che nessuno sappia dove si trovi. Dopo gli Oscar per The Millionaire, l’inglese Danny Boyle ritorna con un film one-man-show per raccontare l’immobile lotta di un uomo per ritrovare la tanto amata libertà.

Ho bisogno d’aiuto.

Aron Ralston non avrebbe mai pensato di arrivare pronunciare queste parole. Zaino, occhiali da sole-bandana-cappelletto, borraccia d’acqua, palmarina, l’onnipresente Gatorade anni ’90, frutta e quanto può servire per la solita avventura in solitaria, tra mountain-biking e free running; il necessario coltellino svizzero rimane invece a casa sul ripiano troppo alto di un armadio insieme alla segreteria con i messaggi non risposti della mamma e a qualsiasi possibilità di comunicare con il mondo.

Io posso fare tutto da solo. (utopica) Filosofia di vita in cui puoi credere solo fino a quando non hai bisogno degli altri: prima o poi succede sempre, ma non tutti lo capiscono in tempo. Incosciente egoista.

Un centinaio di miglia per uscire dal traffico, dalla gente che affolla negozi, locali e marciapiedi di città-troppo-piene. E poi il meraviglioso Blue John Canyon – Utah. Sole che spacca le pietre, cielo azzurrissimo e rocce arancio-rosse nella stupenda fotografia di Anthony Dod Mantle, inglese che frequenta spesso la talentuosa cinematografia danese (Dogma compreso), e di Enrique Chediak. Pedala a tutta velocità tra salite e discese dell’immenso canyon, cade-ride-si-rialza; voyeur estremo che filma tutto con la sua palmarina agganciata al manubrio della mountain-bike. Poi lega la bicicletta, si segna la posizione e via di corsa, musica in cuffia, saltando da una roccia all’altra per quei luoghi che conosce perfettamente (ma non basterà). Incontra due ragazze che si son perse, gli fa da affascinante guida per ritrovare la strada e scoprire come si vive una vita al massimo, compresi tuffi nel vuoto da mozzare il fiato. Un po’ di svago in spensierata compagnia femminile, prima di un saluto con la promessa di birrette sotto un gigante Scooby-Doo gonfiabile.

Una roccia che sembra stabile, poi un piede scivola: in un attimo Aron si ritrova sul fondo di un canyon con la mano destra completamente bloccata da un masso. 127 ore di una surreale e immobile odissea, in un crepaccio fuori dal mondo senza nessuno che possa aiutarti. Se si arrendesse sarebbe una lenta/inesorabile morte di stenti, ma è troppo combattivo, troppo amante della vita per lasciarsi andare alla paura. Quando sembra perdere il controllo di sé, Aron riesce a recuperare con tenacia e ingegno che poi si fanno testarda e disperata voglia di (soprav)vivere, nonostante le pessime condizioni psico-fisiche, la scarsa qualità di coltellini cinesi simil-svizzeri, il miraggio di una salvifica tempesta e il corvaccio del malaugurio. Perché si spaventa a vedersi così, perché non vuole andarsene in un modo tanto stupido, perché ha capito che la felicità, ma in generale la vita, è reale solo quando è condivisa, come il meno fortunato Alex Supertramp dello splendido ‘Into the wild’.

Il bravo James Franco è il mattatore di questo one man show, un immobile film d’azione costruito ad arte da Danny Boyle: colori saturi, montaggio clipparo con tanta musica, flashback ‘n’ forward, multiscreen e inquadrature estreme e dall’immancabile palmarina cui lasciare l’ultima eredità visiva. La storia di Aron Ralston era una sfida, perché raccontare la vicenda di una persona intrappolata per 127 ore poteva diventare soltanto un esercizio di stile, come il recente Buried di Rodrigo Cortes. Ma la sceneggiatura di Simon Beaufoy (Oscar per ‘The Millionaire’, la sua carriera iniziò con gli improbabili spogliarellisti di ‘Full Monty’) sa trovare la strada giusta e Boyle costruisce un arco di tensione narrativa che nell’ultima mezz’ora ti cattura visceralmente tenendoti col fiato sospeso.

Ho sempre avuto un personale e inconscio amore/odio per il suo modo di narrare furbo-ma-che-funziona; il suo interesse per storie e personaggi ha un non so che di poco sincero, di scelto ad arte per attirare lo spettatore più che per seguire un percorso autorial-stilistico o una particolare idea di cinema, però sa (quasi) sempre colpire nel segno. Ennesimo touché. E poi c’é ‘Ca plane pour moi’ di Plastic Bertrand, notevolissimo revival di fine anni ’70.

Come vada a finire la storia non è così importante. O meglio nella vita, a differenza dei film, le persone non cambiano mai in maniera assoluta, lo fanno lentamente e a piccoli passi. Don’t give up Aron.

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alexmn 8/10

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