This Must Be The Place regia di Paolo Sorrentino
DrammaticoCheyenne è una ex rock star cinquantenne. Dopo un tragico evento si è ritirato a (monotona) vita privata in una villa della campagna di Dublino. La sua esistenza sembra uscire dal limbo in cui è sprofondata dopo una telefonata che annuncia l’aggravarsi della condizioni di salute del padre. Road movie atipico alla ricerca di sé stessi e di quella vendetta (postuma) inseguita per tutta una vita. Dopo il successo internazionale de ‘Il Divo’, il regista Paolo Sorrentino torna al cinema con un nuovo film presentato in anteprima al Festival di Cannes 2011. Protagonista è quel-gran-attore di Sean Penn. Colonna sonora di David Byrne.
Un cane con il collare che può guardare solo davanti a sé.
Smalto nero sulle unghie, simil cerone sul viso, orecchini, rossetto rosso su fondo cipria perché per la lunga tenuta la marca non è importante, lacca sui lunghi/crespi capelli corvini, eye-liner e rimmel su intensi occhi azzurri. Occhiali da sole scuri.
Cheyenne è una ex rock star anni ’80, quelli del rock post-apotesi anni ’70, della nascita di MTV e del declino della radio, della cocaina, dell’edonismo come stile di vita, di Bruce Springsteen e dei Talking Heads. Un tarantinato mix tra Cher e Robert Smith dei Cure. Il suo rock depresso-più-per-denaro-che-per-stile-personale, e il controverso rapporto con una ‘masturbatoria’ chitarra solista, ne fecero l’idolo di tanti giovani apatici che sublimavano la loro condizione nei suoi testi/note deprimenti. Due di loro, più deboli degli altri, ci sono rimasti sotto. Poi l’abbandono dei palcoscenici e della musica, il ritiro in una megavilla con interni di design nella campagna di Dublino, le partite a pelota nella piscina senz’acqua, l’andatura/parlata da stupefacente passato, una moglie materna, la giovane dark-amica sua (non) biografa ufficiale, racconti non-voluti di scopate ingessate e un musical-futuro (da centro commerciale) che chiede udienza al passato. Ma soprattutto uno sterminato senso di colpa per quei due ragazzini che le continue/indesiderate visite al cimitero non riusciranno mai a placare. Dark flowers bloom in the autumnal garden that grows inside of me. Quell’evento tragico segnò l’entrata in un limbo, la condanna a un’adolescenza senile a tempo indeterminato. Un ragazzo-quasi-sessantenne che non riesce a crescere e come i bambini non ha mai desiderato fumare una sigaretta, un adolescente fuori tempo massimo alla faccia dei trenta-quarantenni che smuccinano rimpianti, sogni e una pedante/inesplosa voglia di partire. Cheyenne ha vissuto a mille all’ora finché l’orologio della sua storia non si è bloccato in un laico purgatorio (forse) senza nessuna possibilità di redenzione.
Un passato a cui non si può guardare ma che trasciniamo alla spalle come un trolley. Un futuro lasciato alla giovinezza altrui. Un presente fatto di indolente noia scambiata per depressione, investimenti in borsa, chiacchiere al bar, sesso coniugale come fosse la prima volta, un ragazzo/figlio/fratello scomparso e impacciati tentativi di unire due giovani tristezze incompatibili. Sottotrame (in)compiute e metafore di una (non) vita.
Lo squillo di un lynchiano telefono rosso è la violenta irruzione della realtà che progressivamente dà la carica a un orologio fermo da tempo. Oltreoceano in nave con la paura di morire per andare al capezzale del padre ebreo che si sta spegnendo di una non-malattia, la vecchiaia. Arriverà con trent’anni di ritardo a capire che le inossidabili convinzioni da quindicenne l’hanno fottuto, perché quando si è giovani non si ha mai voglia di tornare sulle proprie decisioni, e che un padre non può fare a meno di amare suo figlio/a, anche se si trucca gli occhi o è una stylist strampalata. L’on the road per l’America splendidamente fotografata da Luca Bigazzi è un atto di coraggio, quell’unica volta nella vita in cui si abbandona la paura che ti salva sempre: decide di proseguire la ricerca del nazista che umiliò il padre nei campi di concentramento prima di sparire e diventare un Peter Smith qualsiasi sopravvivendo ingiustamente a chi avrebbe dovuto seppellirlo. Percorso dovuto per riscattare una vita inchiodata al 1940, un’esistenza di solitudine e inappagato risentimento per un pesce piccolo, uno di quei nazisti per cui non valeva la pena alzarsi dalla sedia, perché anche la caccia agli ‘squali’ malvagi segue le regole dello show business (mai come oggi questa affermazione sa di verità). Vendetta che si farebbe duplice pass-partout per uscire dal tunnel di una spensieratezza negata. Come un improbabile investigatore privato si mette sulle tracce di Aloise Lange, tappa obbligata per la propria redenzione e per onorare/vendicare la memoria del padre. Non prima però di aver visto la scenografica esibizione del canuto-e-di-bianco-vestito David Byrne con This must be the place e ‘sputato’ con lui amare sentenze sulla sua vita da (non) artista: uno sfogo impetuoso e necessario per iniziare finalmente ad allontanare angosce e fantasmi passati.
Il suo viaggio è fatto (di luoghi) d’incontri narrativi e/o surreali, persone e dialoghi. Tavole calde, bar e ristornati che riportano alla memoria l’America di Hopper, qui inconscio ispiratore di silenzi, inquadrature e realtà metafisiche. La luce del sole sulla parete di una casa. Tutto parte da quel sushi restaurant dove un loquace intermediatore finanziario texano gli affida il suo immenso pickup carico di livore nascosto. Chiacchiere da bancone con un artista tatuatore prima di finti ricordi liceali per ingannare un’anziana (non) vedova che insegnava storia, ma ogni tanto saltava l’Olocausto perché forse era solo una questione di soldi e poi era sempre a fine programma. Un Batman sovrappeso e un indiano silenzioso. Rachel e il grassoccio figlio (di papà aeronautica miliatare) Tommy che adora gli Arcade Fire e per un momento riconcilierà Cheyenne con la musica: nella sua dolce retorica è l’incontro più profondo, momento forte di svolta interiore e narrativa. Armi che danno la sensazione di uccidere impunemente. Poi l’inventore del trolley Robert Plath (cameo di quella splendida faccia di Harry Dean Stanton) e il ritorno di Mordecai Midler, super-detective-privato-yiddish-sfonda-porte con 1500 informatori, che accompagnerà Cheyenne verso l’ultima tappa, alla fine della vita. Lì infliggerà un gelido e dantesco contrappasso all’ultra novantenne (ex) carnefice. Postuma riconquista della perduta spensieratezza e rinascita personale da quel morire rimanendo vivi. La sigaretta della maturità segna il ritrovamento del proprio posto nel mondo.
Sean Penn, Oscar subito (non per il premio in sé, ovviamente), è l’interprete perfetto di un ossimoro vivente: ingenuità bambinesca con spunti di profondità da uomo vissuto. Sotto il trucco, la sua immensa prova attoriale dà sostanza a Cheyenne, personaggio difficile che facilmente poteva risultare pedante e macchiettistico. Sublime rockstar decadente. Paolo Sorrentino è un regista di talento. Tanti hanno creduto in lui agli inizi, su tutti Nicola Giuliano e Francesca Cima di Indigo. Il Divo, aldilà del premio a Cannes, rappresenta la summa di un solido percorso stilistico ed espressivo. Qui l’ansia da prestazione (internazionale) gli gioca un brutto scherzo: condannato per eccesso di dolly. Sorrentino si ricordi che non ha bisogno di evoluzioni registiche e narcisistici assoli fuori tema a ogni inquadratura per farci vedere che è bravo. Già lo sappiamo.
A fine pellicola, il pensiero va naturale a due riferimenti cinematograficamente alti: il modello dichiarato di Una storia vera di David Lynch, surreale viaggio attraverso l’America che un vecchio uomo compie a bordo di un tagliaerba per andare dal fratello malato con cui non parla da decenni a causa di una lite; le note di Spiegel im Spiegel di Arvo Part richiamano invece magnifici echi gusvansantiani. Appunti d’interpretazione.
L’unica cosa che ho capito è che a volte la gente se ne va, a volte torna.
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