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8/10

Les Misérables regia di Tom Hooper

Musical
recensione di Fulvia Massimi & Alessandro Naboni

1815-1833. Condannato a cinque anni di lavori forzati per aver rubato un tozzo di pane, Jean Valjean (Hugh Jackman) viene rilasciato dopo quasi due decenni, a causa dei ripetuti tentativi d'evasione. Incattivito dalla prigionia, si consacra a nuova vita soltanto dopo aver conosciuto la benevolenza divina, diventando in breve un uomo rispettabile. Per riparare un torto commesso involontariamente, Valjean si fa carico della piccola Cosette, figlia di un'operaia ingiustamente licenziata (Anne Hathaway), ma il rigido ispettore Juvert (Russell Crowe), che non ha mai smesso di dargli la caccia, gli impedisce di vivere serenamente. I due si fronteggeranno nella Parigi dei moti rivoluzionari, mentre Cosette (Amanda Seyfried) e il giovane rivoltoso Marius (Eddie Redmayne) cercheranno di coronare il loro sogno d'amore.

Fulvia Massimi (voto 8):

Dopo aver conquistato le due statuette più prestigiose all'83esima cerimonia degli Oscar, Tom Hooper si era dichiarato propenso a dirigere la propria versione cinematografica dell'ormai celeberrimo musical tratto dal capolavoro di Victor Hugo, I Miserabili (Les Miz, per gli addetti ai lavori). Detto, fatto: a soli due anni di distanza dalla notte che lo incoronò miglior regista del 2011, Hooper mantiene le sue promesse, e ritorna a calcare il red carpet degli Academy con un kolossal musical che gli vale otto nomination e una sicura conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del suo talento registico. Cambiano le location ma non gli intenti (e nemmeno gli accenti): lasciata la damned Inghilterra per la Francia del primo Ottocento, il regista londinese continua tuttavia a seguire il filo rosso che ne ha attraversato sin dagli esordi la carriera: la propensione per il racconto storico, meglio ancora se biografico. Il gusto per il biopic, espresso tanto al cinema (Il Maledetto United, Il Discorso del Re) che in tv (Longford) evolve, grazie a Les Misérables, in un più complesso quadro storico, che pure non affronta in maniera diretta l'enciclopedico romanzo di Hugo, ma lavora sulle sue fonti più recenti, adattando un grande classico broadwayano. Allo sceneggiatore de Il Gladiatore, William Nicholson, va infatti il compito, semplice soltanto sulla carta, di trasferire per la prima volta sul grande schermo il musical creato nel 1980 da Claude-Michel Schönberg e Alain Boublil, o meglio, la sua versione inglese, prodotta nel 1985 da Cameron Mckintosh e rivista tanto nell'orchestrazione (dello stesso Schönberg) che nel libretto (di Herbert Kretzmer). Il rischio del "già -visto-già -sentito", specialmente per i fan del testo teatrale, è senza dubbio in agguato, ma Hooper - e Nicholson con lui - gli va incontro con eleganza e un pizzico di sprezzo del pericolo, dimostrando ancora una volta di sapere il fatto suo. Lo stile resta quello di sempre, riconoscibile nella tensione verso la deformazione del quadro filmico e la predilezione per angolazioni e movimenti di macchina non convenzionali, ma con Les Misérables è l'ambizione di Hooper a toccare nuove vette, coronando un percorso che dalla panchina di un leggendario allenatore di calcio inglese, passando per il trono del sovrano più amato d'Inghilterra, conduce il regista nel cuore di una delle pietre miliari della letteratura mondiale. Gli spazi si ingigantiscono, e le velleità  narrative si espandono, nel tentativo di cogliere attraverso centocinquanta minuti appassionati (e appassionanti) l'ampio spettro di temi e suggestioni presenti nei testi d'origine. Scegliendo la forma del musical, piuttosto che dell'ennesimo adattamento cinematografico, Hooper inverte la gerarchia di valori presente nel romanzo, servendosi della Storia come sfondo sul quale proiettare la tormentata odissea del reietto pentito Jean Valjean. Se per Hugo la ventennale epopea di Valjan aveva infatti fornito lo spunto per un denso resoconto dei drammatici eventi storici vissuti in prima persona, Hooper coglie nelle traiettorie dei personaggi e nei loro intrecci sentimentali la migliore opportunità per fare breccia sul grande pubblico. E a ragione. La magnificenza della messa in scena - lungi dall'essere l'unica qualità  del film - è un trionfo per gli occhi. Esaltata dalle scenografie di Eve Stewart e Anna Lynch-Robison (meritatamente candidate all'Oscar) e dalla fotografia del ritrovato Danny Cohen - capace di trasformare ogni inquadratura in un'opera d'arte (sia essa un sanguigno e caotico Delacroix o un grottesco e ruvido Daumier) - incornicia le velleità  "colossali" della pellicola, facendosi teatro delle pulsioni libertarie della collettività , ma senza per questo schiacciare con la propria grandezza le aspirazioni intimiste dei singoli individui. Hooper ricorre con insistenza sensata e motivata a primo e primissimo piano per strutturare i momenti di maggiore tensione emotiva dei personaggi, traducendo in un linguaggio cinematografico immediatamente leggibile il corrispettivo moderno dell'aria operistica: l'assolo. Il magnifico cast è senz'altro d'aiuto, giacchè nelle interpretazioni sublimi di Anne Hathaway (un Oscar praticamente già  vinto, grazie alla straziante "I Dreamed a Dream" e di Hugh Jackman (destinato al ruolo di Valjean fin dalla strepitosa conduzione degli Academy nel 2010) il film di Hooper trova linfa vitale per scatenare la commozione e la partecipazione del pubblico. La dolorosa traiettoria di Valjean alla ricerca di se stesso ("Who am I?" la domanda ricorrente) e dell'agognata redenzione si tinge prima dei colori della sofferenza, poi di quelli della rivoluzione - dominante per tutta la seconda parte del film (e coronata da due potentissimi ensemble) - ma conosce anche momenti di umorismo caricaturale, come quello splendidamente interpretato dalla coppia di squallidi villains Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter (ancora insieme, in un musical, dopo il burtoniano Sweeney Todd). Ed è anche alla varietà  del repertorio musicale di Schönberg (da non confondere con l'omonimo dodecafonista) che si deve molta della forza attrattiva del film, tuttavia troppo debole per farlo sbancare al botteghino o apprezzare dalla critica. I numeri musicali, siano essi individuali o collettivi, carichi di pathos o distensivi, generano l'impressione di un musical perpetuo, praticamente privo di interruzioni recitative, che conquista grazie a melodie facilmente orecchiabili (la sequenza della taverna) e intensi assoli e duetti "amorosi" ("On my own" di Samantha Barks, "A heart full of love" di Cosette e Marius). A ben poco valgono le critiche circa l'incapacità  canora di molti attori (quasi tutti proveniente da esperienze di musical cinematografico o teatrale), a meno che il critico in questione non possieda un orecchio assoluto. E non è certo il caso della maggior parte degli spettatori. Russell Crowe, bersaglio favorito dei detrattori del film, viene messo ingiustamente alla gogna, ma il suo è un ispettore Javert di tutto rispetto: la staticità  del suo canto replica la totale mancanza di dinamismo del personaggio, incarnazione di una Legge (civile e divina) che non conosce evoluzione, figurarsi rivoluzione, e che pertanto fa risaltare per contrasto le virtù dell'eroe Valjean. Se l'intento è quello di cercare la piccola falla nel grande film, il filo invisibile da tirare per far crollare su se stesso il castello dell'opera autoriale e puntare il dito sulla sua disfatta, punendo la hybris del regista compiaciuto, allora critiche di queste genere trovano facile spiegazione. Il successo può dare alla testa, i riconoscimenti, anche, ma Tom Hooper dimostra di averla ben salda sulle spalle. Se la sua ultima fatica eccede per ambizione, desiderio di grandeur, o semplice passione, perlomeno lo fa con stile. E considerato il parterre di candidati agli Oscar per l'annata 2012/2013, nonchè la diffusa smania di grandezza che aleggia su di esso, beh, chi è senza peccato scagli la prima pietra.

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Alessandro Naboni (voto 9):

 

I miserabili sono donne-e-uomini degli strati più bassi della società, oppressi dall’insostenibile peso di privilegi e decisioni altrui. Buoni e cattivi in un unico calderone da inferno dantesco dove l’arte di sopravvivere e arrangiarsi è l’unica arma in una lotta darwinianamente senza pietà. Ex carcerati, prostitute, reietti, orfani e monelli di strada, poveri di qualsiasi genere e studenti – quest’ultimi espressione massima di quelle aspirazioni schiacciate da una restaurazione che stava riportando l’Europa indietro di decenni, a prima che l’utopia rivoluzionaria illuminasse le masse. Speranze effimere che caddero tra un inverno russo e una famosa disfatta cantata da quattro svedesi pop, o forse solo ideali in parte dimenticati durante l’era napoleonica insieme ai tanti che si sacrificarono per la presa della Bastiglia e tutto ciò che venne in seguito.

Do you hear the people sing? Singing a song of angry men? It is the music of a people who will not be slaves again!

Sulle barricate riecheggiano le voci dei giovani rivoluzionari, uniti sotto il vessillo e la guida spirituale della libertà. Delacroix a ventiquattro fotogrammi al secondo. Nel 1832 l’epidemia di colera che aveva colpito la Francia uccidendo quasi ventimila persone, portò alla morte del generale bonapartista Jean Maximilien Lamarque, uno dei pochi membri della Monarchia di Luglio ad aver dimostrato una certa/relativa generosità verso i più poveri. Dopo il revival assolutista post Congresso di Vienna – e tralasciando i tre giorni della rivoluzione di luglio e i vagheggiamenti repubblicani – il popolo era ritornato a vivere in condizioni di estrema povertà, pagando colpe di altri in un intollerabile contrasto con la ricchezza di pochi (ogni riferimento è più-che-voluto). Enjolras, Marius Pontmercy, il piccolo-monello-di-Charlot Gavroche, Eponine e tutti gli altri Amici dell’ABC con le loro bandiere rosse costituiscono l’iniziale fiamma del cambiamento, il necessario sacrificio di chi si batte per la sopravvivenza in un apotropaico (in chiave di eventi successivi) e cruento scontro di mondi. Eroi incompresi cui Victor Hugo cuce addosso coccarde rosso-bianco-blu, ma i colori sono un dettaglio, una contingenza di nascita: il loro linguaggio è universale in potenza, senza tempo (leggasi Grecia tra le righe). La rivolta terminerà nel sangue – sempre il rosso che ritorna – ma nulla sarà vano: anni dopo, nel 1848, quelle idee rivoluzionarie e liberali ritorneranno in Europa più forti di prima nei moti della Primavera dei popoli. Le vicende de I Miserabili si fermano prima, al 1833, ma la Storia successiva echeggia nelle pagine di un Hugo che già aveva vissuto quegli eventi. Si sta divagando, meglio lasciare tutto lì come un diorama in cui il tempo non può far male (lo so, l’ultimo album dei Baustelle è a tratti odioso, ma la citazione rende bene il concetto) auto-giustificandomi per l’intreccio senza soluzione di continuità tra romanzo e Storia.

Les Misérables venne pubblicato nel 1862. Numerose trasposizioni teatrali e cinematografiche, tra vecchi adattamenti (quello di Richard Boleslawski del 1935 è il più degno di nota), didascalici film-tv, un Jean Valjean con la faccia incupita di Liam Neeson o quella pasciuta-ma-sofferente di Gerard Depardieu in una miniserie d’inizio millennio. Qualcosa di veramente breakthrough – inglesismo che rende l’idea senza perifrasi – arriva nel 1980 quando il compositore Claude-Michel Schönberg (francese, il dodecafonico era austriaco) e il librettista Alain Boublil ne realizzarono un musical, Les Miz: accoglienza positiva, ma con moderato entusiasmo da parte del pubblico parigino. L’idea però era grandiosa e quando finì nelle mani del produttore inglese Cameron Mackintosh diventò leggenda: dall’85 lo spettacolo è stato rappresentato in trentotto paesi, ventuno lingue e per oltre venticinque anni. Breve cronistoria-stile-Wikipedia per dare un’idea dello stato di fatto cui il regista oscarizzato-e-oscarizzabile Tom Hooper si trovò di fronte: un musical tanto di successo quanto insidioso da trasporre sul grande schermo (guardando al recente passato, l’orribile Mamma mia! docet).

Liquido in breve le critiche su Hooper. Le dodici nomination con i relativi quattro oscar (film-regia-attore-sceneggiatura) per Il discorso del re potevano essere opinabili, sia considerando gli altri film contendenti – Fincher-Aronofsky-Coen-Nolan-Boyle) – sia valutando nello specifico il pur alto livello della pellicola; con Les Miserables invece la questione è diversa e lo è a partire dalla scelta produttivamente folle di girare con gli attori che cantano in presa diretta. Può sembrare un vezzo da pomposo regista che si è montato la testa – come è stato scritto – ma nel concreto si rivela una scelta registica di una potenza incredibile: l’intensità recitativa che si crea nel momento unico dopo il silenceplease-rollcamera-rollsound-action arriva immediata senza essere disinnescata da un castrante playback. Un espediente che restituisce al cinema parte della sincerità di una performance live. Ovviamente questo non basta a farne un grande film, però ridimensiona le critiche all’autore.

Galeotto fu un pezzo di pane rubato per sfamare la sorella e i figli di lei, un gesto di disperazione punito con cinque anni di carcere. Era il 1796 e di lì a poco Napoleone Bonaparte avrebbe iniziato la sua cavalcata trionfale. Il giovane Jean Valjean entra così nel romanzo di Hugo, marchiandosi indelebilmente con l’immeritato titolo di reietto, di uomo che non potrà mai trovare pace né una vera redenzione se non in punto di morte. Il film di Hooper apre invece nel 1815, a Tolone dopo diciannove anni passati da Valjean ai lavori forzati a causa di svariati tentativi di fuga finiti male, alla faccia della provvidenza manzoniana.  E fin da subito il regista inglese mette in chiaro il suo stile con quella commistione tra l’epica grandiosità d’inquadrature spettacolari e la sergioleonesca contrapposizione con piani stretti sui volti dei personaggi. Proprio i primi(ssimi) piani sono la dichiarazione d’intenti più forte perché esplicitano la volontà registica di raccontare la Storia attraverso le storie di singoli personaggi in cerca di una (im)possibile salvezza dalla loro condizione di miserabili, il rosso di un domani che sta per nascere in contrapposizione al nero di anni bui. Volti, lacrime e pioggia, segni per l’età e per i muscoli tesi nella sofferenza, sangue-troppo-sangue-innocente, occhi terrorizzati-speranzosi-innamorati-rassegnati-rabbiosi, espressioni che raccontano tutta una vita.

La potenza musicale del duo Schönberg-Boublil è difficile da esprimere a parole, pezzi meravigliosi sia nel raccontare l’interiorità di un personaggio – il famoso I dreamed a dream, ma anche On my own o lo struggente Empty chairs at empty tables –  sia nell’esprimere un sentimento più corale come nel brano One day more che precede il giorno della rivolta o in Look down, ritratto/manifesto della condizione di miserabile. Una menzione speciale per Do you hear the people sing, l’inno della rivoluzione, il canto delle barricate e dell’unione del popolo contro l’ingiustizia della monarchia francese e idealmente di tutti gli assolutismi di ieri-oggi-domani. La sensazione è di assistere a un continuum musicale, un’unica canzone con variazioni che seguono l’andamento della narrazione e degli animi dei protagonisti, emozioni che progressivamente si traslano allo spettatore al punto che ci si aspetterebbe di sentir cantare la platea da un momento all’altro.

Perfetta la scelta del cast: Hugh ‘Valjean’ Jackman dovrebbe recitare sempre cantando perché acquisisce spessore attoriale, sembra nato per il musical; la voce rock’n’roll di Russel ‘Javert’ Crowe è roca quanto basta per dare corpo al personale incubo di Valjean e per ricordargli il suo infausto passato/destino; Anne ‘Fantine’ Hathaway dà letteralmente anima-e-corpo allo straziante personaggio della madre abbandonata che si trova a vendere se stessa per mantenere la figlia Cosette; il piccolo Daniel ‘Gavroche’ Huttlestone, martire innocente di una vita che l’ha fatto crescere troppo in fretta; la coppia Baron Cohen–Bonham Carter che interpretano sé stessi o i coniugi Thenardier, questione di punti di vista; i ribelli: Samatha ‘Eponine’ Barks, letteralmente vittima del proprio amore per Eddie ‘Marius Pontmercy’ Redmayne, l’unico non miserabile che troverà per questo redenzione, Aaron ‘Enjolras’ Tveit, il simbolo della rivolta che muore tenendo alta e stretta quella bandiera rossa per cui non ha mai smesso di combattere. Infine il colore rosso, protagonista imprescindibile che segna i momenti più forti, le contrapposizioni più sanguinose e le affermazioni più alte di libertà. Un gran pezzo di cinema, Oscar morale come miglior film.

Will you join in our crusade? Who will be strong and stand with me? Beyond the barricade is there a world you long to see?

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alexmn 9/10
Upuaut 9/10

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