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8/10

Kong: Skull Island regia di Jordan Vogt-Roberts

Azione
recensione di Leda Mariani

È il 1973. Richard Nixon ha appena annunciato il ritiro dal Vietnam, ma non tutti tirano un sospiro di sollievo: c'è chi si chiede a cosa sia servita la guerra, e se può finire… c’è chi desidera andare avanti, lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare, e chi invece cerca nuovi nemici. In questo clima agitato e confuso, un gruppo eterogeneo di scienziati, soldati ed esploratori, si trova ad avventurarsi nelle profondità di una mitica e sperduta isola del Pacifico, tanto pericolosa quanto affascinante. Al di là di ogni loro aspettativa, la squadra procede inconsapevole di entrare nel dominio del potente Kong, innescando la battaglia finale tra l’uomo e una natura violenta ed ancestrale. mostra spoiler

Nel momento in cui la missione di scoperta diventa una lotta per la sopravvivenza, i protagonisti della vicenda dovranno combattere per sfuggire da un Paradiso primordiale in cui gli uomini non fanno da padroni, ma risultano quei minuscoli ed impotenti esseri che sono, difesi dalla gigantesca scimmia che siamo abituati a vedere osteggiata in ogni modo, che qui diventa invece Dio protettore dell’umanità. RESTARE IN SALA ANCHE DOPO I TITOLI DI CODA!

Gli anni Settanta in un profondo gioco di sguardi.

Quello che ci propone Jordan Vogt-Roberts è un King Kong veramente avvincente e particolare. Assolutamente pazzesco a livello visivo, tra spettacolari riprese aeree, scene d’azione splendidamente coreografate, effetti digitali che rendono viva e presente ogni incredibile e mitologica creatura, è un film ritmato e musicale, contraddistinto da una colonna sonora anni Sessanta-Settanta che evoca per tutto il film un immaginario Rock e liberatorio. La composizione di Henry Jackman, tra classici americani e musica d’atmosfera, valorizza le incredibili sequenze d’azione fin dall’inizio, in un crescendo che tiene incollati allo schermo fino all’ultimo fotogramma.

L’idea è tanto originale quanto sono irrilevanti i dialoghi della sceneggiatura, ma le parole non hanno alcuna importanza in questa pellicola… si perdono: i protagonisti ci giocano, blaterano consapevolmente in maniera prevedibile e scontata, e sono recitati in modo leggero, meccanico, per quanto riguarda i dialoghi. Perché ciò che conta e che comunica, in questo film, sono invece gli sguardi: quelli umanizzati, doloranti e consapevoli della Scimmia, quelli dei giganteschi ed inermi erbivori dell’isola, quelli degli umani che da millenni si trovano sperduti nel Pacifico, e che non hanno appunto alcun bisogno di parlare per esprimersi. Tutto il rapporto tra la protagonista femminile, fotografa ben interpretata da Brie Larson, e Kong, si esprime in un gioco di sguardi e lo stesso vale per le relazioni a tutti i livelli, anche fra commilitoni.

La bellissima fotografia di Larry Fong ha toni anticati, romantici, quasi nostalgici: sono state fatte molte riprese al tramonto, all’alba, calcando la mano sul giallo, sull’aurora boreale, il verde… Il film punta chiaramente moltissimo sull’aspetto visivo e lo fa in maniera sofisticata e divertente, quasi vintage, anche nella riproduzione di vecchi supporti visivi e sonori, come giradischi, diapositive e riprese in Super 8 e 16 millimetri.

Un King Kong che diventa Re consapevole e responsabile: totalmente umanizzato, se non per qualche tipica mossa da scimmia, che piange in solitudine il destino di ultimo della sua specie, dopo la morte di tutti i suoi simili, e che affronta con caparbio coraggio la ribellione di bestie che da millenni vivono relegate sotto terra e che premono per venire allo scoperto. Un’idea veramente molto particolare, che non avremmo mai immaginato associata all’immagine della grande Scimmia, che qui esprime una rabbia ed un dolore molto umani, nei quali non possiamo non rispecchiarci totalmente.

Il film tira fuori dal cilindro un po’ tutti i mostri delle paure più arcane, a partire dai dinosauri, e snoda vicende, situazioni, musica e appunto, sguardi lunghi e silenziosi, che sottolineano ogni momento drammatico. A chiedersi a cosa sia servita la guerra è lo stesso militare che è convinto di "saper riconoscere un nemico" quando se lo trova davanti, ma che invece si illude e basta. Perché il colonnello Preston Packard, che ha lo sguardo allucinato di Samuel L. Jackson, quando si trova di fronte ad un gorilla di 30 metri per 10.000 tonnellate, si convince che sia un nemico più per il fatto che gli mancano i Vietcong, che perché gli ha abbattuto un po' di elicotteri e fatto fuori degli uomini. La gente come Packard, che finita la guerra potrebbe tornare di corsa a casa, ma che invece è ben felice di fare da scorta armata ad una missione scientifica su un'isola misteriosa ed inesplorata, è gente senza coscienza, senza alcun raziocinio, solo devastazione: bestiale e umana allo stesso tempo, come i due lati dell’uomo che il film, in maniera certo divertita, prende in considerazione.

Non che Kong: Skull Island vada caricato di chissà quali significati profondi, afflati pacifisti, o questioni ideologiche, ma è evidente che dietro al gigantesco pop-corn movie, ossia un film che se ne frega del budget che ha a disposizione e che vuole rimanere nella serie B, perlomeno con la testa, divertente ed elettrizzante, c’è un particolare insistere sull'ossessione bellica che ha accompagnato gli Stati Uniti e il loro cinema per tutti gli anni Settanta e Ottanta. Con gli elicotteri, i caschi dei soldati con le scritte, i disegni, le fotografie, le sigarette e le fiaschette, con le chitarre grasse e psichedeliche dei Creedence o dei Black Sabbath a fare da tappeto sonoro (ma ci sono anche gli Stooges, Bowie, i Chamber Brothers, gli Hollies e i Jefferson Airplane), il Vietnam reale o metaforico di Vogt-Roberts assomiglia molto più a quello di Thomas Magnum o di Rick Simon che a quello di Oliver Stone o di Francis Ford Coppola. E la fotografa pacifista ma determinata di Brie Larson ricorda parecchio le Charlie's Angels in missione nella giungla, con la piega sempre perfetta anche dopo aver rischiato la pelle.

L’orizzonte estetico di Skull Island è allora chiaramente quello degli anni Ottanta: quello dei telefilm che ancora non si chiamavano serie tv, permeato dallo stesso spirito auto-ironico di Magnum P.I., di Simon & Simon, o dell’A-Team, salvo nei momenti in cui la brutalità muscolare di Kong non invade lo schermo e l’attenzione degli spettatori. Il regista non si prende troppo sul serio (ecco anche il perché di Reilly e di un Goodman molto statico e provato), ma prende sul serio il Gorilla, in un afflato animalista-ambientalista. Il suo Kong non è solo il più grande, tra quelli che l'hanno preceduto, e il più incazzato, ma forse anche quello più buono, più malinconico, umano: quello che lotta contro gli Strisciateschi perché gli hanno sterminato la famiglia, che protegge gli umani e si fa aiutare da loro, e che di Brie Larson s'innamora, ma senza nemmeno provarci, perché sa qual è il suo posto e quale quello di Tom Hiddleston, sempre ben pettinato e inerte.

Stavolta non tanto la storia della Bella e della Bestia, con i personaggi maschili come figurine d'appoggio, ma un bel film d’azione e fantasia che rimanda anche ad altro: capace di divertire senza lungaggini o pedanterie digitali, senza voler essere autori a tutti i costi, ma divertendosi e facendo un po' i buffoni, pur insistendo sulla riflessione dell’incessante debordare umano, nel suo voler sempre mettere le mani dove non deve, soprattutto a livello di impatto sulla Natura.

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