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6/10

L'Arte di Cavarsela regia di Gavin Wiesen

Romantico
recensione di Francesco Carabelli

George è un ragazzo senza la minima voglia di impegnarsi a scuola, nonostante frequenti l'ultimo anno di liceo. Non ha motivazioni e non ha una vita sociale. L'incontro con la coetanea Sally lo porterà a cambiare, a mettersi in gioco e a crescere interiormente. Sarà l'inizio di una nuova vita.

Non pecca di originalità la pellicola del newyorkese  Gavin Wiesen.

Una serie di luoghi comuni del film di crescita e di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, incentrato su un protagonista alle prese con le difficoltà della vita liceale e che deve affrontare il primo amore con le conseguenze che esso comporta sull’umore.

Originale è piuttosto l’atteggiamento del protagonista, George (Freddie Highmore), un perfetto lavativo, eccentrico, dedito all’arte, che nel suo porsi ci ricorda vagamente l’Harold del classico Harold e Maude, anche per la misantropia che li caratterizza.

Ma forse l’esempio più vicino nel tempo è il Craig di 5 giorni fuori, pellicola che ispira abbondantemente quella di Wiesen, per l’ambientazione newyorkese, per la crisi vissuta dal protagonista, per la comune passione per l’arte e per la funzione catartica del primo innamoramento (la controparte femminile è in entrambi i casi interpretata da una splendida Emma Roberts) e per la paura nell’affrontare la vita.

Tra gli altri topoi la classica visione di un film francese nouvelle vague (in questo caso Zazie nel metrò), come esperienza che non può mancare nella classica scappatella da scuola.

L’arte come mezzo per esprimersi, per evadere dalla quotidianità della routine, sembra essere un tema ricorrente di molte pellicole americane dedicate all’adolescenza. Sembra che l’atto creativo e la contemplazione di opere d’arte siano l’unica valvola di sfogo di una vita altrimenti appiattita sulla competitività e ingrigita dal rigore.

Si nota una certa sintonia tra gli attori protagonisti, che permette comunque di mantenere briosa la narrazione , nonostante lo spettatore capisca con largo anticipo quale sarà l’evoluzione dei fatti.

L’happy ending  tranquillizza lo spettatore, ma non ci regala quel di più creativo che vorremmo vedere.

La regia è abbastanza piatta, senza soluzioni innovative, stessa cosa dicasi per la fotografia, che a parte alcuni momenti più significativi, non lascia spazio a sorprese.

Buona invece la scelta delle location, che ci mostrano luoghi di New York poco frequentati dal cinema americano e che vanno quindi oltre la classica visione da cartolina della metropoli statunitense.

Il lavoro di Wiesen nasce comunque da una rielaborazione di esperienze autobiografiche ed è apprezzabile per la linearità con cui procede la narrazione senza salti o ellissi, attraverso una costruzione chiara e immediatamente afferrabile:  quello che i francesi chiamerebbero un cinéma du milieu, per il suo procedere senza infamia e senza lode, ma con la volontà di raccontare storie nonostante i mezzi risicati (la pellicola è un film indipendente finanziato da Fox Searchlight).

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