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9/10

Una settimana e un giorno regia di Asaph Polonsky

Drama
recensione di Leda Mariani

Dopo il successo alla Semaine de la Critique dello scorso Festival di Cannes e la vittoria del Prix Fondation gan à la diffusion, arriva nelle sale italiane la commedia brillante di Asaph Polonsky che racconta il ritorno alla vita di Eyal e Vicky, una coppia che dopo la rituale settimana di lutto della tradizione ebraica (la Shiv’ah), in seguito alla perdita del loro unico figlio, malato di cancro, deve trovare la forza di andare avanti. Vicky cercherà di farlo riprendendo la routine quotidiana, mentre Eyal “sballandosi” con il figlio degli odiosi vicini di casa, e stringendo con lui un rapporto unico e sorprendente. Un film divertente e commovente sul diritto e il dovere di ricominciare.

Per ricordasi che la vita, semplicemente, la si vive.

Una settimana e un giorno è un film davvero interessante e che lascia spiazzati. Partendo da una situazione estremamente grave, riesce a dar vita ad una storia esilarante, che scorre via leggera come l’aria. Si arriva alla fine tra risate, riflessioni, e profonda commozione, senza nemmeno accorgersene, ed apprendendo allo stesso tempo costumi e tradizioni di una cultura che non conosceremo mai abbastanza, profonda ed antichissima.

Una pellicola semplice, scorrevole, volutamente spoglia anche nelle riprese, sempre un po’ sporche, in movimento, a seguire il passo deciso di Shai Avivi che interpreta Eyal, padre arrabbiato con l’esistenza, ma comunque vivo e vitale, che non si lascia andare alla rassegnazione, quanto più all’idea di vivere la vita nel presente, secondo la “filosofia di Zooler”, l’amico d’infanzia del figlio, che non punta a concludere nulla di preciso, ma a sopravvivere divertendosi il più possibile, in serenità e giorno per giorno. In questo il film è molto contemporaneo: rispecchia bene la forma mentale delle presenti e forse future generazioni, che non puntano più alla ricostruzione, o alla costruzione, quanto più al godimento dell’esistenza e alla conservazione di ciò che già esiste.

Asaph Polonsky, giovanissimo e al suo primo lungometraggio, è riuscito a dar vita ad una sceneggiatura originale ed ispirata, che scatena un umorismo esplosivo, toccante e sorprendente. Una commedia davvero ben scritta, in tutta la sua intelligente umiltà, e girata puntando l’attenzione sull’interpretazione comica e dettagliata degli attori protagonisti. Consiglio di vedere la versione sottotitolata e non doppiata, per non perdersi le sfumature della fantastica recitazione di Shai Avivi nei panni di Eyal Spivak, di Evgenia Dodina che interpreta Vicky Spivak e di Tomer Kapon, stavolta alle prese con un ruolo meno fisico e molto più interessante del solito, che interpreta appunto il giovane Zooler.

Del figlio della coppia, del loro carattere e dei loro trascorsi, capiremo moltissimo in breve tempo, senza che venga detto quasi nulla: magia delle sceneggiature ben scolpite. E saranno i giovani (Zooler e la piccola figlia di una malata terminale, la bravissima Alona Shauloff nei panni di Bar) ad insegnare agli adulti la semplicità dell’esistenza, fatta di piccole, pazze, grandi avventure quotidiane, in questa assurda e a tratti davvero ridicola lotta per la sopravvivenza.

La Shiv’ah, dalla quale prende spunto l’idea base del plot, è una settimana di osservanza del lutto che ha inizio in Israele dopo il funerale di un defunto e che si svolge in casa sua o in quella dei famigliari più stretti. Parenti e amici si ritrovano per sostenere ed assistere i cari dello scomparso e la funzione si chiude al mattino del settimo giorno. Nel corso della Shiv’ah i congiunti in lutto non lavorano e trascorrono la maggior parte del loro tempo in casa, concentrando il pensiero e il ricordo sul defunto, in profondo omaggio, ma anche in una situazione claustrofobica dalla quale i coniugi Spivak cercano di sfuggire in qualunque modo. Rispetto all’argomento, l’approccio è dunque assolutamente originale, e come ha sottolineato il regista: <<consente di sottolineare l’assurdità della situazione, permettendo all’ironia delle interazioni umane di emergere e di portare inaspettata luce in un racconto cupo>>, trascinandoci nelle vicende di un padre che ha perso il figlio musicista e che adesso intende fare solo ed esclusivamente ciò che ha voglia di fare, ciò che sente, mentre sua moglie cerca anche lei di capire come andare avanti, dovendo contemporaneamente gestire un marito ormai senza redini.

Una storia insomma assolutamente universale, di benevola follia umana, di scardinamento delle regole e dei costumi, che diventa narrazione d’Israele solo nei piccoli dettagli, che sono anche, in genere, la fonte principale degli accenti comici. Shai Avivi è conosciuto in Israele come attore comico, sia televisivo che di cabaret. Evgenia invece ha sempre interpretato ruoli drammatici, soprattutto in teatro, e in Una settimana e un giorno ha trovato l’alchimia perfetta con Shai. I personaggi sono certamente divertenti, ma anche estremamente realistici: veri, in tutta la loro sorprendente complessità.

Ne usciamo dunque con una netta sensazione di autenticità, che a pensarci bene, ripercorrendo i fatti allucinati della storia, sembra impossibile… e invece è così, è tutto vero, come per la vita: drammatica ed esilarante, dinamica e statica, logica e folle, calda e fredda, appoggiata sulle sue stesse contraddizioni, a perenne beffa dell’effimera ed agitata natura umana. E sembra che non esista altra cinica e sana ricetta, che quella di imparare a viversi bene il proprio presente, andando avanti perché dobbiamo e finché possiamo, anche se sembra incredibile, anche se immersi fino al collo nelle tragedie peggiori, che sul momento possono sembrarci insostenibili, ma che alla fine ferocemente passano e scorrono via, come il nostro tempo limitato.

 

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