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6/10

Annie regia di John Huston

Musical
recensione di Leonardo Romano

L'orfanella Annie viene adottata da un burbero miliardario, che le si affeziona talmente tanto da promettere una ricca ricompensa nel caso in cui si rifacessero vivi i genitori della piccola (gli unici a possedere l'altra metà del medaglione che Annie ha al collo). Miss Hannigan, laz proprietaria dell'orfanotrofio, in combutta col fratello "Gallo", tenta il colpo. Però tutto è bene quel che finisce bene: "Papà" Warbucks adotta Annie, "Gallo" finisce in galera e Miss Hannigan si ravvede.

Come già m'è capitato di scrivere per Voglio essere amata in un letto d'ottone, Annie è il classico esempio di film che fa da vaso di terracotta fra vasi di ferro.

Infatti questo musical per bambini (o forse semplicemente musical che è meglio far vedere ai piccoli, visto che i grandi faticherebbero un po' a prenderlo sul serio), dovette scontrarsi quell'anno (il 1982), con due film di tutt'altra caratura: E.T. di Spielberg (che - anche in virtù degli allora prodigiosi effetti speciali di Rambaldi - non poteva non avere un maggiore appeal sui bambini degli Anni '80, cresciuti a cartoni animati giapponesi a base di robot ed astronavi) e Victor Victoria (capolavoro di Blake Edwards con protagonisti una Julie Andrews in stato di grazia ed un Robert Preston "praticamente perfetto sotto ogni aspetto", come direbbe un altro personaggio tanto caro alla Andrews).

Non ci si stupirà quindi se Annie, al di fuori degli Stati Uniti, faticherà non poco a lasciare un netto ricordo nella mente degli spettatori, considerando anche la serrata (e ben più meritevole) concorrenza.

Il film, tratto da un musical di Broadway del 1977 (a sua volta tratto da un fumetto di Harold Gray, Little Orphan Annie, la cui protagonista divenne celeberrima anche per una particolarità: aveva sempre le palpebre chiuse e non mostrava mai le pupille. Però mentre Gray, profondamente conservatore, era un fiero avversario del New Deal roosveltiano, il musical e il film ne sono quasi l'epinicio), uno strepitoso successo andato in scena per ben 2377 repliche e vincitore di ben due Tony Awards (incluso quello per il miglior musical), partì subito all'insegna delle spese faraoniche: la Columbia sborsò nel 1978 ben nove milioni e mezzo di dollari per ottenere i diritti teatrali.

Sulla carta i talenti non mancano: John Houston, Carol Burnett, Bernadette Peters, Ann Reinking, Tim Curry (l'indimenticabile "sweet transvestite" di un musical di tutt'altro spessore come The Rocky Horror Picture Show) e così via.

Però il produttore Ray Stark parte col piede sbagliato proprio scritturando John Houston, grandissimo regista che è stato capace di più d'un salto di qualità nella sua carriera, ma assolutamente inadeguato e piuttosto a disagio nel maneggiare una materia che non gli è congeniale come la commedia musicale.

I tentennamenti furono una costante nella realizzazione del film.

Houston spese inutilmente un milione di dollari per girare una versione più elaborata di "Easy Street" per poi scartarla e scegliere quella girata per prima, meno elaborata (e decisamente meno costosa). Charles Strouse rimaneggia la partitura scartando delle canzoni che facevano parte dello show tetrale e ne recupera altre a sua volta scartate per Broadway pasticciando non poco ed ottenendo un risultato finale non esaltante sotto il profilo musicale.

Di questo accrocchio se ne devono essere accorti anche gli spettatori che fecero incassare al film 57 milioni di dollari (neanche una cifretta niente male...), ma a fronte di 50 milioni di dollari di spesa! Insomma, siam rientrati appena nelle spese: non possiamo certo definirlo un successo strepitoso (anche se poi i distributori dei vari Paesi decideranno di approntare anche un doppiaggio delle canzoni per aumentarne le possibiltà commerciali riuscendo parzialmente nell'impresa: il film non mieterà grandissimi allori all'estero).

Effettivamente si ha l'impressione che tutto il cast voglia divertire a tutti i costi lo spettatore gigioneggiando a ogni piè sospinto, ottenendo però come risultato di lasciarlo più allibito che divertito.

Aileen Quinn, inserendosi nel solco tracciato da Shirley Temple per le bambine nel cinema hollywoodiano, ci sembra un po' troppo scaltra, saputella e impertinente per essere una povera orfanella reietta (e non è che Ilaria Stagni, impegnata in quegli anni proprio negli orrorifici ridoppiaggi degli orrorifici film di Shirley Temple, sembra migliorare le cose. Anche se, in una puntata de I Simpson, la Stagni si citerà spiritosamente addosso facendo cantare a un Bart sotto effetto di psicofarmaci ed alla guida di uno schiacciasassi proprio la versione italiana di "Tomorrow", da lei doppiata anni prima); Albert Finney/ "Papà" ("Daddy") Warbucks (doppiato da Gianni Marzocchi, quell'anno impegnato anche a dar voce al Verdi di Ronald Pickup nel gradevole ancorchè troppo didascalico omonimo sceneggiato RAI diretto da Renato Castellani, con l'usuale professionalità benchè piuttosto affaticato e infiochito nella voce), per render meglio l'idea del miliardario senza cuore, passa quasi la totalità del film a sbraiticchiare (e così fa Marzocchi) risultandoci più grottesco più che burbero; Carol Burnett, talentuosa cantante ed attrice comica, nel voler ridicolizzare il personaggio di Miss Hannigan (in fondo in fondo, una beona che sfoga le sue frustrazioni di donnetta mediocre su delle indifese bambine di un orfanotrofio),calca troppo la mano sul grottesco col risultato di sbracare ad ogni piè sospinto (e Rita Savagnone, nel doppiarla, la segue a ruota. Va però fatto notare che, rispetto alla collega americana, mostra un'intonazione perfino migliore e una voce più levigata: quasi ci si rammarca che questo sia stato l'unico musical che le abbiano fatto doppiare); Ann Reinking, che interpreta Grazia (Grace, nella versione originale) Farrell, nel voler sembrare buona e dolce, ci sembra piuttosto un po' insipidina (come Marzia Ubaldi, del resto. Però, al contrario della Savagnone su Carol Burnett, un po'inferiore alla collega americana nel canto); Tim Curry, che interpreta "Gallo" ("Rooster"), si inserisce nel solco tracciato dai suoi colleghi e calca decisamente la mano, toccando l'apice nel prefinale quando tenta di uccidere Annie con inusitata crudeltà, tentando di gettarla da un ponte ferroviario (francamente ci sembra una reazione un po'spropositata per un rubagalline. Invece, molto misurato e molto bravo è il suo doppiatore italiano, il versatile Massimo Giuliani); Bernadette Peters non pervenuta.

Menzione d'onore al bravissimo Cesare Barbetti, voce di Edward Herrmann (il Presidente Roosvelt), che sa passare con disinvoltura dall'eroe Robert Redford al Presidente degli Stati Uniti con grande leggiadria in uno dei suoi purtroppo non frequenti ruoli canterini.

Dei testi italiani delle canzoni si occupa un Franco Migliacci che sembra adeguarsi al tono di medietà del film con i suoi adattamenti non disprezzabili ma senza estro, mentre Paolo Limiti (sì, proprio lui!... Quello dei pomeriggi musicali di Rai Uno a base di canzoni decrepite adatte a un pubblico altrettanto decrepito) se la cava decisamente meglio col testo di "Domani" con un adattamento assai piacevole e per nulla inferiore all'originale.

Sembra che gli attori principali stiano facendo la parodia del ruolo loro affidato, mentre John Houston sembra condurre in porto l'impresa senza particolare vivacità, forse puntando un po' troppo sugli aspetti più lugubri della vicenda, resi ancor più lugubri da una fotografia talvolta un po' troppo torbida.

Anche se c'è una scena in cui il vecchio leone sembra dare una delle due zampate: quella in cui un anarchico tenta di far saltare in aria con una bomba la villa di "Papà" Warbucks, in quanto simbolo del sistema capitalistico che funziona e plateale smentita alle profezie apocalittiche e palingenetiche dei bolscevichi (divertente e divertito omaggio all'anticomunismo strisciante del cinema hollywoodiano degli Anni '30 - epoca in cui si svolge la trama del film - e dei decenni successivi. Soprattutto in un genere "reazionario" per eccellenza come il musical, soprattutto quando è rivolto alle famiglie).

Il giudizio un po'tranchant e lapidario di Martin Charnin, il paroliere del musical ("Terribile. Terribile. Ha stravolto ogni cosa"), è forse eccessivo, però non si può negare che si avverte una certa pesantezza di fondo, talvolta una plumbea tetraggine, che non può non lasciare lo spettatore interdetto. Senza poi contare che il cast non ci facilita la visione, impegnato talmente a premere il piede sull'acceleratore del grottesco da risultare piuttosto goffo e artificioso.

Non mancano certo i momenti piacevoli nè le canzoni orecchiabili, ma a questo film manca qualcosa. O forse manca solo l'ispirazione. O forse arriva fuori tempo massimo (un musical con un'orfanella come protagonista sarebbe stato cinematograficamente accettabile vent'anni prima, non certo negli smaliziati Anni '80), tanto che si ha un po' l'impressione di assistere all'esposizione di un reperto archeologico in un museo.

Non un film da massacrare in modo sommario, ma nemmeno da lodare con entusiasmo- Uno sforzo produttivo inutile quindi? Forse peggio... Innocuo.

Si può vedere senza grosse aspettative per non rimanere delusi.

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Gatsu 5/10

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