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R Recensione

6/10

La signora di Shanghai regia di Orson Welles

Drammatico
recensione di Gloria Paparella

Il marinaio Michael O’Hara, dopo aver salvato da un’aggressione la signora Bannister, viene assunto da quest’ultima sullo yacht del marito per partire in un viaggio verso il Sud. Pur innamoratosi di Elsa, O’Hara capisce presto di essere soltanto una pedina di un piano molto più grande e malvagio di quanto potesse immaginare.

Tratto dal romanzo di Sherwood King (il cui titolo originale è If I die before I wake), La signora di Shanghai è il quarto film di Orson Welles il quale, nonostante ritenesse il libro orribile, riuscì a scriverne una sceneggiatura cinematografica in sole 72 ore. Il film, girato nel 1946 sullo yacht di Errol Flynn, in Messico e anche nel quartiere cinese di San Francisco, venne fatto uscire soltanto due anni dopo: Harry Cohn, direttore della Columbia, non rimase soddisfatto né degli eccessivi costi di produzione, né dell’immagine di dark lady trasmessa nella figura di Rita Hayworth. L’attrice, infatti, interpreta la vamp cattiva Elsa Bannister, la quale ammalia con la propria bellezza e avvenenza il marinaio Michael O’Hara (Orson Welles) che la salva da alcuni aggressori in un parco. Ingaggiato sullo yacht del marito, l’avvocato Arthur Bannister (Everett Sloane), il marinaio spera di intrecciare una relazione con la donna, ma si rende subito conto della strana atmosfera esistente a bordo: George Grisby (Glenn Anders), socio dell’avvocato, coinvolge il protagonista in un losco affare, ovvero mettere per iscritto di aver ucciso accidentalmente Grisby in modo che questi possa sparire tranquillamente. Da qui nasce una trama pericolosa e mortale che porterà alla rivelazione della vera personalità di Elsa, donna dal torbido passato a Shanghai e incapace di amare, perché unicamente interessata al denaro.

Seppur l’intrigo sembra servire soprattutto come pretesto al regista per mettere al centro i rapporti tra i personaggi e le loro psicologie, La signora di Shanghai è un noir affascinante, che sviluppa un  gioco molto sottile e raffinato sugli stereotipi del film “nero”: prendendo di mira la loro tradizionale corrente misogina, il personaggio impersonato da Rita Hayworth vuole richiamare con un velo di ironia la “crudele” per eccellenza, Barbara Stanwyck di Fiamma del peccato, e tutto il film strizza l’occhio alle arie e atmosfere del genere (ad esempio, Mistero del falco del 1941 o Grande sonno del 1946). Ad ogni modo, la pellicola lascia in definitiva qualche perplessità sulla reale e attendibile consistenza del personaggio interpretato dallo stesso Orson Welles, un marinaio e quindi uomo di esperienza che si rivela troppo ingenuo nel farsi coinvolgere nel gioco di morte dei Bannister. In effetti, la sceneggiatura risulta alquanto semplicistica e debole; ma d’altra parte, come può il protagonista resistere al fascino di Rita Hayworth (allora sposata con Welles) che aveva fatto sognare gli uomini di tutto il mondo con la sua interpretazione di Gilda (1946): qui, il mito della donna fatale viene distrutto e l’attrice non solo perde la sua famosa chioma rossa per diventare una biondo platino, ma addirittura si trasforma in un’assassina, ferita nella sparatoria nella sala degli specchi e morente lontana dal suo eroe. In realtà fu la stessa Hayworth ad insistere con i capi della Columbia perché fosse diretta in un film da Welles il quale, per la prima volta, si sceglie il ruolo di un eroe positivo e rigorosamente moralista: ne sono prova, oltre alla metafora dell’irlandese gettato in un mare di squali (americani), le frasi con cui il marinaio O’Hara chiude la vicenda: “Adesso che è morta, bisogna che mi sforzi per dimenticarla…” e “L’importante è saper invecchiare bene…”.

 

La storia, che può apparire farraginosa e confusa, conquista sul piano tecnico per la pienezza delle inquadrature e per le ambientazioni e le scenografie proposte in uno stile visionario e allo stesso tempo grottesco, mentre risulta obsoleta la voce fuori campo di O’Hara, che di fatto anticipa l’intrigo legato ai protagonisti. Non è certamente il più grande film di Welles, ma la scena dell’acquario dove O’Hara ed Elsa si incontrano (le sagome dei pesci vengono deformate dal vetro e dalle lenti della macchina da presa) e la dimensione onirica dell’epilogo nel labirinto degli specchi portano in sé il segno del genio.

 

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