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9/10

Quinto Potere - Network regia di Sidney Lumet

Drammatico
recensione di Cristina Coccia

Howard Beale, commentatore televisivo della UBS di Los Angeles, un'importante rete nazionale appena acquistata da un'altra società, viene licenziato con un preavviso di sole due settimane, dopo undici anni di lavoro, a causa di un calo degli indici di gradimento. Beale riuscirà  tuttavia a ritagliarsi il ruolo di "pazzo profeta dell'etere", riconquistando i suoi ascoltatori e creando non pochi problemi ai dirigenti della UBS.

Il pluripremiato Network di Sidney Lumet (4 Premi Oscar e un BAFTA nel 1976), distribuito in Italia con il titolo Quinto Potere, per creare una soluzione di continuità , tutta italiana, con il Quarto Potere di Welles (in versione originale Citizen Kane), esamina il fenomeno sociale e il background economico della televisione, come fece, secondo alcuni critici (cit. Bertetto), il venticinquenne Welles con il potere della stampa. Anche Kane, infatti, per certi versi, mette in evidenza le ambiguità  del sogno americano: il magnate, che ha iniziato la sua fortuna grazie all'oro di una miniera, cade nell'impossibilità  di amare a causa delle spire degli interessi economici americani, scaturiti dalla crisi del '29. Altro elemento di continuità  è il potere assoluto della finzione. Per Welles, però, il cinema possiede un'attrazione "magica", e non è soltanto veicolo di storie illusoriamente reali, per Lumet, invece, tutto è finalizzato a rappresentare e denunciare il fenomeno di massa con ironia, cinismo e una giusta dose di insensibilità , anche da parte del regista stesso. Si vogliono enfatizzare i difetti della televisione riportando tali difetti nella pellicola stessa. La trama è incentrata sulle peripezie del commentatore televisivo della UBS di Los Angeles, Howard Beale, che, giunto nella fase terminale della sua carriera e sull'orlo del licenziamento, decide di usare il meccanismo che lo ha portato al successo, rigirandolo e raggirandolo, per ottenere una proroga al suo pensionamento. Si esibisce come "pazzo profeta dell'etere", dopo aver annunciato il suo imminente suicidio, in diretta, nel corso di una trasmissione. Dietro di lui si scatenano le ambizioni di Diana Christensen, giovane ed emergente responsabile dei programmi, e di Frank Hackett, proconsole dei nuovi padroni nella UBS. L'unico a mantenere un contatto con la realtà  e a non cadere nel vortice generato da questa efficiente macchina di propaganda, alimentata esclusivamente da interessi economici e indici di ascolto, è Max Schumacher, miglior amico e diretto superiore di Howard, ma anche, e soprattutto, amante di Diana. Già  nel 1976, secondo Lumet, iniziava a delinearsi, in maniera indiscutibile, quella che sarebbe poi diventata la nostra attuale società  di massa, fondata su modelli culturali dominanti e su canoni imposti dalla tv e da internet. Il nostro senso comune diventa consapevole di sè stesso soltanto se è la tv stessa ad insegnarcelo, ammettendo che, all'improvviso, un profeta, come Beale (uno spettacolare Peter Finch), esca dai binari e inizi a denunciare la follia di credere che un mondo illusorio, ma creato da pochi uomini uniti da interessi economici, possa prevalere su una realtà  che, probabilmente, è illusoria già di per sè. Nella cinematografia, anni dopo, infatti, partendo da critiche velate ai mass media, i Wachowsky avrebbero contestato tutta la nostra realtà , virtuale o apparente, in modo profondamente filosofico, dicendo: "E' il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità"  (Matrix). Se si pensa che a dettare le regole di un mondo irreale ce n'è uno ancora più frammentato e fittizio, ci si rende conto di perdere sempre di più di vista il carattere individuale dell'essere umano. Si arriva, appunto, ad una disumanizzazione totale e ad acquisire modi di comportamento, pensieri e perfino emozioni collettive. Ovviamente, intellettuali, cineasti e sceneggiatori, sono sempre i primi ad alimentare denunce di questo tipo, perchè contestando i mezzi di diffusione di massa e le loro dinamiche, non solo se ne distaccano, agli occhi del pubblico medio, ma si sentono consolati dal fatto che, in questo modo, non contribuiscono al processo di abbrutimento comune. Si fa leva e si specula, così, anche sul pentimento e sul disprezzo, che, per altro, prende spunto dalle carriere di due grandi uomini di cinema, nati, però, proprio nel mondo della televisione, Paddy Chayefsky e Sidney Lumet. Questa è solo un'altra contraddizione generata dalla spirale in moto perpetuo della macchina televisiva, che genera modelli, li contesta, li distrugge, li rimpiazza con altri, in questo "circo, carnevale, troupe viaggiante di acrobati, cantastorie, ballerini". Poveri noi! Ridotti ad un ammasso di poltiglia umana, sempre più simile a mandrie di bestie, guidati solo da pochi pensieri che ci sono stati impiantati dalla nascita da famiglie, a loro volta inebetite dalla cultura di massa. Tutti, adesso, ancor più del 1976, possiamo rispecchiarci nella figura di Diana (meravigliosa Faye Dunaway), descritta tragicamente dall'innamorato William Holden (Max Schumacher): "Tu sei la televisione incarnata Diana, indifferente alla sofferenza, insensibile alla gioia, tutta la vita si riduce a un cumulo informe di banalità . Guerre, morti, delitti, sono uguali per voi come bottiglie di birra, e il quotidiano svolgimento della vita è solo un'orribile commedia. Tu frantumi anche le sensazioni di tempo e spazio in frazioni di secondo e lunghezza di segmenti. Sei la pazzia, Diana. Pazzia furiosa e tutto quello che tocchi muore con te. Ma non io. Non finchè potrò provare piacere, sofferenze e amore." Nonostante questa spaventosa verità , tutti siamo chiamati a dover affrontare i nostri ruoli, sempre più simili a personaggi di scadenti serie tv. Nella convulsa ricerca di rassicurazioni, di modelli che ci dicano cosa fare, perchè ormai non siamo più in grado di pensare nè di decidere in maniera autonoma, restiamo frastornati e ci illudiamo di conoscere la verità , presumiamo di sapere cosa sia giusto o cosa non lo sia. In realtà , mentre viviamo in questa trappola in cui le nostri menti sono asservite alla legge degli indici di ascolto, andiamo sempre più verso lo scenario descritto dal personaggio di Arthur Jensen, presidente della UBS: "una vasta ed ecumenica società  finanziaria per la quale tutti gli uomini lavoreranno per creare un profitto comune, nella quale tutti avranno una partecipazione azionaria, e ogni necessità  sarà  soddisfatta, ogni angoscia tranquillizzata, ogni noia superata". Però, credere al punto di vista esternato in un'irata pellicola, come questa di Lumet, è, tuttavia, cosa profondamente simile a credere agli stereotipi televisivi. L'intellettuale furibondo che, con la pretesa di esporre la "sua verità", cerca di indottrinare lo stesso pubblico che fino ad un attimo prima viveva in pace nel suo salotto a credere ad altri docenti dell'etere, è solo un altro clichè, meno scontato, ma pur sempre televisivo. E' un espediente per enfatizzare la realtà , eccitare il pubblico con monologhi arrabbiati e con frasi ad effetto per ridicolizzare un sistema in cui siamo comunque, e irrimediabilmente, affondati. Siamo aggregati di dati, pallide ombre di esseri umani che fanno parte di una globale illusione. L'unico modo per uscirne non è credere ad altri profeti, ma sviluppare un pensiero critico, non smettere mai di essere vigili su quello che ci viene propinato. Network resta una notevole e feroce parodia che riesce a mantenere un costante equilibrio tra dramma quasi televisivo e sdrammatizzazione delle vicende narrate e costituisce uno dei cardini della produzione cinematografica anni 70, ma è esso stesso una bellissima rappresentazione di quel miscuglio contraddittorio e informe da cui dobbiamo sempre allontanarci per mantenere il nostro sacrosanto diritto al pensiero polemico costruttivo. Gli intellettuali saranno sempre "una minoranza di indesiderabili che grida nel deserto" (Farenheit 451), ma a noi resta comunque la possibilità  di gridare, da soli, distaccandoci dalla massa, perchè il valore della coscienza individuale è ancora più alto di quello di ogni, qualsiasi minoranza.

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