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8/10

Riflessi in un Occhio d'Oro regia di John Huston

Drammatico
recensione di Gloria Paparella

In una base militare della Georgia, il maggiore Penderton è sposato con l’affascinante Leonora, la quale tradisce il marito dopo averne scoperto le tendenze omosessuali. Convinto che l’amante della moglie sia un giovane soldato, il maggiore Penderton, armato di pistola, commetterà un grave errore.

Fosca vicenda ambientata in un campo militare, il film è tratto dal secondo romanzo di Carson McCullers, edito nel 1941, che all’epoca aveva suscitato scandalo per la scabrosità dei temi trattati. La storia è quella di un brutale delitto commesso nel sud degli Stati Uniti negli anni Trenta, e vi si intrecciano voyeurismo, omosessualità ed adulterio.

Moglie bellissima e insoddisfatta, Leonora (Elizabeth Taylor) disprezza il marito, il maggiore Penderton (Marlon Brando) del quale ha scoperto la segreta omosessualità, e non fa nulla per nascondere la tresca che la lega al colonnello Langdon (Brian Keith). Quest’ultimo al contrario cerca di mantenere il più stretto riserbo sulla relazione così da non turbare la moglie Alison (Julie Harris), mentalmente instabile. Lo stesso Penderton adocchia il giovane soldato Williams (Robert Forster), del quale si invaghisce; non sa, però, che il ragazzo è talmente attratto da Leonora da introdursi in silenzio nella sua camera da letto per osservarla mentre dorme. Il clima della perversa situazione si arroventa quando il maggiore Penderton sorprende Williams durante una delle sue incursioni notturne e, credendolo l’amante della moglie, viene preso da un irrimediabile gesto d’ira.

Girato in parte a Roma presso gli studi Dino De Laurentis e in parte negli Stati Uniti in una base aerea militare a Long Island, Riflessi in un occhio d’oro è un film intricato dal punto di vista psicologico e narrativo e che, sostanzialmente, gira intorno a due “incidenti”: il giovane soldato che vede Leonora nuda e il maggiore che scopre l’esistenza del giovane soldato. La logica interna del film è costruita su questi due fatti riferiti al maggiore e al ragazzo, che diventano i due poli della storia, una storia in cui tutti guardano tutti. E il regista John Huston fa come i suoi personaggi: guarda, ma non giudica. Probabilmente è questo il motivo dello scarso successo del film, ma anche uno dei punti più importanti, ovvero l’assenza di giudizio, lo sguardo distaccato del regista, il quale pone il pubblico come giudice moralizzatore: in apparenza non c’è alcun messaggio e ciò inquieta gli spettatori che sono costretti ad assumersi le loro responsabilità.

L’occhio d’oro del titolo è quello di un uccello fantastico dipinto dal bizzarro servo filippino di Alison, ma simbolicamente può riferirsi al personaggio emarginato e che rappresenta il perno della vicenda: la recluta Williams, il cui occhio contempla la bellezza seducente di Leonora. A sua volta, l’attrazione sessuale del maggiore, che sorprende il soldato a cavalcare completamente nudo nel bosco, è un sentimento contraddittorio, un miscuglio di fascino e repulsione, verso la sua energia e il suo mistero. Lo stesso Pernderton è un personaggio ambivalente: la sua rigidità militaresca e il suo spartano piacere nella cura dell’estetica celano un senso di inferiorità e di debolezza dovute alla consapevolezza di essere diverso.

Il film, dal ritmo lento e dai tempi dilatati, mantiene per tutta la sua durata un’atmosfera suggestiva e rarefatta, proprio perché il regista non vuole concedere tutto e subito: con un crescendo di emozioni e quindi di ritmo, il finale da capogiro alterna urla e immagini dei volti scioccati dei protagonisti. Una scritta che accompagna l’inizio del film compare anche nella chiusura: “C’è una base militare nel Sud dove pochi anni fa è stato commesso un omicidio”.

Il cast hollywoodiano è assolutamente all’altezza della situazione: Marlon Brando, sostituto del prescelto Montgomery Clift (morto una settimana prima dell’inizio delle riprese), è superbo nel fare di Penderton una figura inquietante, dall’ambiguità nevrotica e frustrata: la sua capacità di penetrare nello spirito del personaggio e di riemergere con qualcosa di nuovo ed inatteso è impressionante. Elizabeth Taylor si allontana dallo standard dei suoi personaggi ed alterna sequenze conturbanti e convincenti, nelle quali è una moglie crudele ed arrogante (da ricordare la scena del nudo integrale, seppur in penombra e di schiena, nella quale provoca e deride il marito), ad altre di minore intensità. Interpretazione eccellente quella di Julie Harris, la cui pacatezza e fragilità rendono amabile un personaggio che nasconde un masochismo e un odio per la carne che l’hanno spinto a mutilarsi i capezzoli con forbici da giardino dopo la morte del suo bambino.

Il film, che si avvale di uno speciale procedimento fotografico di viraggio dei colori (la tonalità dominante è l’oro-arancio), è un lavoro straordinario sviluppato a partire dai concetti del testo di McCullers, e il filo grottesco che attraversa il dramma rende la pellicola un’opera eccezionale e sottovalutata per la mancanza di valutazioni morali. Peccato che Huston non considerasse il suo film come un’opera psicanalitica, bensì una semplice esposizione di fatti.

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