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8/10

Victor Victoria regia di Blake Edwards

Musicale
recensione di Leonardo Romano

Prigi, 1934. Victoria Grant, soprano di quart'ordine ridotto alla fame, su consiglio di un attempato amico gay, Tody, diventa il Conte Victor Grazhinskij, il più famoso travestito d'Europa. Il successo è immediato e folgorante, ma Victoria si innamora (riamata) di King Marchand, uomo d'affari e gangster con tanto di guardia del corpo (Squash) e pupa bionda al seguito (l'irritante Norma). Ma dopo varie peripezie, Victoria coronerà il suo sogno d'amore con King (e Tody con Squash)

Ti riveleremo una cosa che solo noi gay sappiamo. I film a tematica gay fanno schifo.”

Parole sante di Eric McCormack, alias Will Truman, che osava rivelare, nella geniale serie “Will & Grace”, una delle più indicibili verità della comunità gay.

Infatti le trame dei film appartenenti al genere “queer” ruotano inevitabilmente attorno a questi consunti schemi: l’adolescente che fa coming-out ai propri genitori che, dopo l’iniziale incomprensione, lo accettano con amore; il bell’etero di turno che per caso scopre quanto sia bello l’amore fra uomini (con la variante del bell’etero che non aveva voluto dar peso a certe pulsioni avvertite flebilmente in passato); il bell’ etero machista e maschilista che in realtà ama spassarsela con dei bei ragazzetti gay senza ammettere a se stesso d’essere gay, ma che alla fine cede alle proprie inclinazioni.

Lo svolgimento di tali “originali” trame può essere duplice : o assolutamente drammatico e disperato (riscontrabile nei film francesi, inglesi o americani, purchè indipendenti) o virato verso il lieto fine consolatorio (specialità, questa, di Ozpetek e delle sue pellicole che grondano borghese banalità da ogni fotogramma). Fa eccezione Almodovar che si prende il lusso di optare ora per l’una ora per l’altra soluzione indifferentemente (con qualche trans di contorno chè fa tanto colore e che fa contenti un po’ tutti).

Tratto più o meno comune di tutti questi film, però, è la sciaguratissima confezione: recitazione monocorde se non orrorifica (col palestrato d’ordinanza beato di mostrare i propri addominali e i propri bicipiti in virtù dei quali smaltisce 90 minuti e archivia l’onere della recitazione con un sopracciglio perennemente arcuato. Io li chiamo gli attori dell’Actor Studio “Lee Majors”), una regia inesistente o tutt’al più piattamente televisiva, dialoghi insulsi, superficialità a vagonate e tanta tanta retorica anti-discriminatoria.

Come direbbe Fantozzi, delle cagate pazzesche.

Victor Victoria, invece, è lontano mille miglia dal modello del film a tematica gay standard.

Forse perché Blake Edwards è un regista assai capace, dallo humor tagliente eppure raffinato, intelligente e che ha un notevole talento visivo che gli viene dalla sua lunga “vita da mediano” nella Hollywood classica, con una serie di notevoli salti di qualità al suo attivo durante tutta la sua lunga ed onorata carriera.

Forse perché il cast è azzeccato come poche rare volte è capitato in un musical (genere che sembrava ormai morto e sepolto dalla fine degli Anni ’60 in poi).

Julie Andrews sembra aver ritrovato lo smalto dei bei tempi (guadagnandosi diversi riconoscimenti e una nomination agli Oscar) e, benchè non dotata dell’ambiguità di una Marlene Dietrich (sempiterna icona gay a cui è emblematicamente dedicata la prima inquadratura del film), in virtù di un sovrumano talento e a doti recitative non comuni, riesce ad esser credibile per tutta la durata del film nei panni di una donna che finge di essere un uomo che finge di essere una donna, forse perché non dotata di una femminilità prorompente e proprio per questo vagamente androgina (senza poi stare a ricordare le sue straordinarie doti canore che le permettono di valorizzare il già notevolissimo spartito di un ispirato Henry Mancini).

Robert Preston sbalza e ritrae un omosessuale pronto, spiritoso e dalla battuta caustica, senza tuttavia scadere nello stereotipo caricaturale della “checca acida”. Tutt’altro! Infonde al personaggio una profonda umanità e possiamo dire a ragione che ha lasciato a futura memoria un’interpretazione magistrale. James Garner, seppur accerchiato da cotanti “mostri”, non sfigura nel ruolo del gangster macho e machista che si sente vacillare la propria eterosessualità sotto i piedi, ma che soprattutto teme il giudizio altrui. Menzione d’onore alla spiritosa Lesley Ann Warren (che si aggiudicò una nomination agli Oscar), semplicemente perfetta: con il suo ruolo, la pupa del boss bionda e starnazzante, rinverdisce i fasti di un’altra mitica oca bionda entrata di diritto nella storia del cinema: Jean Hagen, alias Lina Lamont di  Cantando sotto la pioggia.

Va anche detto che il film, oltre a mostrare una confezione splendidamente accurata che ci riporta indietro con tanta nostalgia ai musical classici di Hollywood degli Anni ’30 col loro lusso e col loro allegro ottimismo, grazie ad una sceneggiatura (ispirata a un film tedesco del 1933, Viktor und Viktoria) di rara intelligenza ed arguzia a firma di Edwards stesso, senza monologhi o dialoghi piattamente didascalici e senza dover per forza rivolgersi ad un pubblico fatto solo di militanti dell’Arcigay, sa essere molto più persuasivo nel suo messaggio di tolleranza di mille ed inuitili (oltre che mediocri) Stonewall, Le fate ignoranti, La finestra di fronte e tanti tanti, forse troppi, altri film a tema.

Proprio perché il grande Blake non è un regista specializzato nel genere, bensì un uomo di grande ironia, sa perfettamente che con il sorriso, il riso e la risata grassa si riesce a convincere il pubblico (quindi, la gente comune) più che con 90 minuti di lamentose prediche da un pulpito. Ed Edwards va perfettamente a segno, ricorrendo ad una vicenda solo apparentemente farsesca o dai contorni vagamente boccacceschi, ma in realtà profondamente umana e niente affatto ipocrita o necessariamente compiacente nel tratteggiare il mondo gay.

Se poi il tutto è condito da canzoni magnifiche (che sanno essere di volta in volta ironiche, scatenate e a ritmo di jazz o romantiche), costumi di una perfezione esemplare, scenografie di raro buongusto e da frizzi e lazzi (affidati soprattutto alla macchietta dell’investigatore privato pasticcione e maldestro, legato a doppio filo con l’altro ispettore francese pasticcione e maldestro: Clouseau) , “con un poco di zucchero la pillola va giù” (tanto per citare una celeberrima canzone di sua moglie).

Davvero notevole il doppiaggio italiano che può allineare i suoi più validi esponenti, quali Maria Pia Di Meo (ovviamente per Julie Andrews), Pino Locchi (per James Garner), uno straordinario Sergio Fiorentini (degno del grandioso Robert Preston) ed Anna Rita Pasanisi (per Lesile Ann Warren), che forse non sa essere starnazzante come la sua collega americana, però sa essere ugualmente e simpaticamente petulante e fastidiosa.

Quindi, per non mancare alla visione di questo capolavoro avete più d’un pretesto.

Potreste essere fan di Julie Andrews… Potreste amare i musical... Potreste avere la predilezioni per le commedie intelligenti… Potreste essere amanti dei film a tematica gay… Potreste essere ben disposti a passare un paio d’ore in allegria…

Insomma, qualunque sia il motivo che vi abbia spinto a guardare questo film, sappiate che avete fatto un terno al lotto perché avrete il piacere di imbattervi in una pellicola che ha lasciato il segno grazie ai suoi interpreti in stato di grazia, ai suoi dialoghi spumeggianti ed intelligenti e al suo messaggio profondamente civile ma divulgato senza toni cattedratici.

Da non perdere senza se e senza ma!

 

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