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7/10

Funny Girl regia di William Wyler

Commedia
recensione di Leonardo Romano

Il film narra la vita romanzata di Fanny Brice, che dai palcoscenici del vaudeville, grazie alla sua splendida voce benchè non sostenuta da una grande avvenenza, arriva al successo con le "Ziegfeld Follies". Si sposa anche con un bel giocatore di poker amante della bella vita e degli affari rischiosi, Nick Arnstein. Fanny sarà poi costretta a lasciarlo - pur continuandolo ad amare - perchè il bel Nick capisce che, con la sua condotta, potrebbe nuocerle alla carriera.

 

Solitamente, nel linguaggio comune dello spettatore medio, si è soliti dire: “ho visto quel vecchio film di John Wayne”, “ho visto l'ultimo film di Nicole Kidman”, “ho visto “La banda degli onesti” di Totò” e così via.

Modo di dire assai frequente,ma che non corrisponde del tutto a verità. Infatti un film non appartiene al divo che l'ha reso famoso (anche se per il pubblico appartiene solo ed esclusivamente a lui, forse non proprio a torto): in realtà, artefici di un buon film sono anche il regista, il produttore, l'autore della colonna sonora, il direttore della fotografia e tutti coloro che hanno dato un contributo per farne un'opera d'arte o un buon prodotto di successo.

Nel caso di “Funny girl”, però, appartiene in toto, senza tema di smentita a Barbra Streisand.

A lei ed a le sola.

Anche perchè, se prendiamo in considerazione gli altri elementi del film, non ci troviamo di fronte a niente di particolarmente memorabile.

William Wyler è un grandioso regista con diversi film memorabili al suo attivo,ma a partire grosso modo dagli Anni '50 in poi, l'autore de “La voce nella tempesta”, “La figlia del vento”, “Ombre malesi”, “La signora Miniver” etc. si trovò forse a firmare le sue opere forse di maggior successo, ma anche meno personali (basti pensare al colossale kolossal “Ben Hur”) ed un po' appiattite sulle convenzioni del filmone hollywoodiano dalle dimensioni ciclopiche. In “Funny girl” infatti, a parte qualche bella ripresa (è l'esempio della sequenza di “Don't Rain On My Parade” in cui si produce in alcune prodezze, ma senza eguagliare ad esempio l'istrionismo del Robert Wise di “Tutti insieme appassionatamente”), Wyler non sembra essere particolarmente intenzionato a lasciare il segno.

Inoltre, se consideriamo che questo è un musical, di canzoni realmente memorabili non ce ne sono molte. Anzi, ce n'è solo una: “People”. Splendida, incantevole e meravigliosa nella sua intima semplicità., ma è pur sempre una. Le altre, invece, scivolano via senza dopo tutto rimanere impresse (ancorchè gradevoli).

Omar Sharif, il co-protagonista, è come sempre affascinante (il suo occhio ceruleo da dottor Zivago conquista di sicuro le spettatrici), ma, come al suo solito, se ne sta lì inertino ad aspettare i titoli di coda senza un apparente guizzo di esuberanza.

Le scene, i costumi e la fotografia sono tutt'altro che disprezzabili (anche se ad Hollywood abbiam visto di meglio, eh!...), ma se il film si fermasse qui, ci troveremmo di fronte ad un musical come tanti altri.

Ma, come ho detto prima, c'è un valore aggiunto: la Streisand.

Nel dar corpo a Fanny Brice - vedette ebrea di Ziegfeld, non proprio avvenente come le altre stelline del grande talent scout di Broadway,ma dotata di una irrefrenabile simpatia e di una grande autoironia –, Babra fa centro disegnando un personaggio a tutto tondo, sbalzandolo e scolpendolo a suo piacimento ed in ogni suo dettaglio, arrivando a guadagnarsi una popolarità immensa (ed un Oscar difficilmente contestabile). I punti di contatto fra lei e la Brice erano non pochi, come abbiamo visto prima; mettiamoci anche che l'aveva interpretata con enorme successo sui palcoscenici di Broadway e di Londra a partire dal 1964 nel musical omonimo (benchè, nel passaggio dal palcoscenico allo schermo, le canzoni eliminate e quelle sostituite siano state diverse senza badare troppo per il sottile) e ci spieghiamo come la sua interpretazione sia rimasta negli annali (Wyler era anche famoso per sottoporre i suoi attori a prove estenuanti pur di ottenere da loro il meglio. Con la Streisand l'obiettivo è stato centrato in pieno). Il momento però in cui riesce a superare se stessa è quello in cui canta “People”, una canzone che è diventata talmente sinonimo si Barbra Streisand che non potremmo immaginarcela interpretata da nessun'altra cantante se non da lei (un'aura magica che lega a questa canzone da oltre 40 anni senza aver perso minimamente il suo fascino). La sua tenerezza, la sua forza e al contempo la sua fragilità, unite ad una quasi istrionica maestria nell'accennare anche solo per un attimo uno sguardo che vuol dire più di mille parole, è assolutamente sbalorditiva e difficilmente si riesce a stabilire il labile confine fra l'interprete e la donna che vive in prima persona le emozioni da lei cantate. (Verdi l'avrebbe designato come un fulgido esempio del concetto di “parola scenica”).

Ma altri momenti notevoli sono i suoi “duelli” con Florenz Ziegfeld, ovvero il maturo gentleman britannico Walter Pidgeon (peccato che non avesse una ventina d'anni di meno: sarebbe stato un Nick Arnstein sicuramente più incisivo di Sharif), l'autocrate che le vuole imporre di debuttare nel suo teatro cantando una canzone in cui esalta la propria bellezza (“His Love Makes Me Beautiful”), rischiando quindi di farsi ridere in faccia da tutta la platea. Fanny, durante le prove, arriva a dire con grande risolutezza, cedendo al ricatto del licenziamento: ”Va bene, Mr. Ziegfeld, ha vinto...Una brutta vittoria,ma ha vinto”. Ma la sera del debutto fa ciò che vuole e trasforma un numero romantico in un irriverente e strepitoso spettacolo comico che smitizza la pretenziosa opulenza delle “Ziegfeld Follies”. Inutile ricordare anche come le basti articolare una nota (sia nella splendida "My Man" o nella malinconica canzone che ha lo stesso titolo del film, premiata con il premio Oscar) per lasciarci semplicemente a bocca aperta (arrivando anche a divertirci con l'ironica "Second Hand Rose", hit del vaudeville che sembra essere particolarmente nelle sue corde)

Anche la caparbietà e l'ironia di Fanny-Barbra ci son rimaste nel cuore.

"Funny girl”, benchè come film conosca dei momenti un po' sonnacchiosi e non sempre proceda a ritmo spedito come dovrebbe, è comunque il miglior musical della carriera della grande attrice newyorkese. Risulta curioso notare come una cantante del suo calibro abbia fatto fatica a trovare dei film in cui potesse dare adeguato sfogo al suo talento canoro e recitativo: infatti da “Hello, Dolly!” a “E' nata una stella” a “Funny lady”, la Streisand si è sempre trovata invischiata in musical che non le hanno mai reso pienamente giustizia (tutti film-zombie, noiosetti e piuttosto pesanti che si strascicano in modo bovino fino ai titoli di coda).

Credo che sia abbastanza emblematico rilevare come il suo film più riuscito sia senza dubbio “Come eravamo”, che tutto è fuorchè un musical (benchè la canzone che prende il titolo dal film sia diventata uno strepitoso successo e viva di vita propria anche indipendentemente dalla bella pellicola di Sidney Pollack).

Per quanto riguarda il doppiaggio italiano non possiamo esimerci dal fare una rumorosa standing ovation a due grandiosi fuoriclasse della CDC come Giuseppe Rinaldi (che, con la sua sovrumana bravura, riesce a dare sostanza e un po'di vita a Sharif) e Maria Pia Di Meo, talmente brava da ricevere in regalo un ciondolo d'argento dalla Streisand in persona (lei, solitamente così brusca e poco incline alla gentilezza con i suoi colleghi) e da diventarne la voce ufficiale fin da allora.

In più, chi leggerà questa recensione si stupirà nel notare l'anno di produzione del film: il 1968.

Riflettendoci sopra, risulta incomprensibile come la Mecca del cinema indugiasse ancora in prodotti francamente un po'datati (come ad esempio “Oliver!” - designato miglior film dell'anno benchè pochi conservino un netto ricordo di questa variazione canterina sul tema del dickensiano Oliver Twist - o “Un giorno...di prima mattina”, biopic di Getrude Lawrence - grande diva del music-hall inglese con una Julie Andrews francamente poco divertita - che si rivelò una catastrofe finanziaria per la Fox di Zanuck), mentre gli Stati Uniti vivevano un periodo in cui l'Università di Berkeley diventava l'avanguardia della contestazione studentesca e gli omicidi di Robert Kennedy e Martin Luther King avrebbero fatto fare un balzo indietro di dieci anni alla società americana.

Non bisogna dimenticare che Hollywood è sempre stato il fiero baluardo della conservazione dello status quo.

A smantellare lo studio system ci penserà poi il pubblico, che implacabilmente penalizzerà al botteghino qualsiasi prodotto volesse gabellar loro che “tutto va ben, madama la marchesa”.

“Funny girl” è l'ultimo musical uscito dagli studios che possa definirsi “un buon film”: dignitoso, piacevole, con alcuni momenti gradevoli e con una protagonista così brava da valere il prezzo del biglietto.

Sicuramente Wyler non firma un capolavoro ma sa dare ogni tanto la sua zampata, soprattutto quando tratteggia con grande raffinatezza la solitudine di una grande artista, che ottiene strepitosi successi sulle scene ma senza ottenerne uno altrettanto strepitoso nella sua vita: avere da Nick quell'amore che sempre ottiene dal suo pubblico adorante.

Nel 1975, ci sarà un seguito: “Funny lady” (in virtù anche del fatto che la Streisand, vincolata da un contratto firmato con il produttore Ray Stark, sarebbe stata costretta a girare un secondo film sulla Brice. Temporeggiò un bel po', non convinta dall'operazione, ma poi dovette cedere agli obblighi contrattuali). Il risultato? Quello tipico “da seguito”: scipito e senza sale, una stanca ripetizione di cose già viste nel primo film ed ovviamente venute peggio.

Quindi, se volete vedere la vera Fanny Brice (quella divertente e profondamente umana), guardatevi l'allegra ed ispirata “girl”, lasciando da una parte la matura e talvolta irritante “lady”.

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