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R Recensione

6/10

Hello Dolly regia di Gene Kelly

Musicale
recensione di Leonardo Romano

A Yonkers, vicino a New York, abita un ricco commerciante scorbutico e dispotico con la nipote e col proprio commesso Cornelio, Tale Orazio Vanderglder, che vuol sposarsi con una ricca e giovane signorina, Irene Molloy. Di lui e dei suoi soldi si interessa la sensale dello sposalizio, la scaltra Dolly Levi, che tanto fa e tanto briga che alla fine riese a sposare Orazio e Cornelio, diventato socio di Orazio, si sposa con la signorina Molloy.

Dopo il successo colossale (e quasi inaspettato) di Tutti insieme appassionatamente, il veterano Zanuck perse la ragione e si lanciò incautamente in una serie di imprese alquanto arrischiate e rischiose come Il favoloso dottor Dolittle, Un giorno...di prima mattina, Tora! Tora! Tora! e naturalmente questo Hello, Dolly!. Il risultato di questi film, in termini di incassi, fu una catastrofe terrificante che condusse la Fox sull'orlo del baratro. Ed effettivamente Hello, Dolly! ebbe certo un ruolo non secondario in questa débacle: oltre 26 milioni di dollari spesi, rispetto ai 20 preventivati (pur sempre una signora cifra). Tratto dall'omonimo musical di Broadway, andato in scena per la prima volta con enorme successo nel 1964 (e al momento dell'uscita del film ancora saldamente sulle scene), a sua volta basato sulla commedia di Thornon WilderThe matchmaker”, questo film aveva molte frecce al suo arco.

Almeno sulla carta. In effetti i presupposti erano più che incoraggianti. Il regista era niente meno che una poderosa leggenda del musical classico americano (sia davanti che dietro la macchina da presa): ovvero il grandissimo Gene Kelly; ad interpretare Dolly era stata chiamata una neo-star, fresca vincitrice di un Oscar, impostasi all'attenzione del pubblico per il suo talento di attrice e di cantante: ovvero Barbra Streisand; deuteragonista era un glorioso burbero dal buffo incedere dinoccolato, vero atleta della commedia (che riusciva a farti ridere in modo convulso solo a guardarlo, come ammise il suo storico partner, l'anima gemella Jack Lemmon): Walter Matthau; e per finire la perizia della confezione targata 20th Century Fox.

La realizzazione purtroppo è di gran lunga inferiore alle aspettative e ben lontana dalla premesse (il che spiega la secca perdita che procurò alla Fox). Non si può dire che al film manchi qualche sprazzo - direi anche notevole: mi viene in mente la scena del ristorante Harmonia Garden col galop dei camerieri e la seguente memorabile canzone che dà titolo al film cantata da una grandiosa Streisand, in condominio con tal Louis Armstrong, nel suo ultimo ruolo cinematografico - ma Gene Kelly, come regista, sonnecchia non poco e sembra condurre in porto l'impresa come se fosse un obbligo (per precedenti dissidi con lo studio-system, si era tristemente trovato emarginato da Hollywood e forse sperava che questo film lo facesse rientrare nel giro. Cosa che non avvenne). Per di più si trovò a dover gestire un odio a prima vista fra la Streisand e Matthau, che la considerava una presuntuosa principiante che si dava un sacco di arie (durante un terrificante litigio arrivò a dirle:”C'è più talento in ogni mia più piccola scorreggia che in te tutta intera” a la definì in seguito “la noia allo stato puro”) ed a girare in un momento storico e politico quanto mai fosco (durante le riprese arrivò la notizia dell'assassinio di Robert Kennedy; il che ovviamente non potè lasciare indifferente la troupe).

La Streisand, a ben vedere, sembra esser stata messa sotto contratto solo in virtù del fatto d'esser la cantante del momento (di indubbio talento, per carità!...) senza aver niente a che fare col personaggio di Dolly, che dovrebbe essere una matura vedova, intrigante, un po' imbrogliona ed avveduta anche grazie alla sua lunga esperienza di vita (non a caso l'interprete del musical teatrale era Carol Channing, acclamatissima da pubblico e critica, più matura, più credibile e pimpante rispetto alla collega. Anche se con la sua voce da oca strozzata non poteva reggere il confronto con la Streisand. Talvolta, però, il carisma in un artista può sopperire ad eventuali limiti). Insomma, a 27 anni si può passare per una vedova scaltra di goldoniana memoria e per di più sessantenne? Era francamente difficile gabellare una cosa simile al pubblico. Che infatti sembrò non gradire e fece paragoni quanto mai spietati ed ingenerosi, ma forse non infondati.

Inoltre non si può negare che la Streisand abbia l'incauta idea di rendere il suo personaggio premendo il piede sull'acceleratore di un'ostentata affettazione (forse pensando che quel tono volutamente querulo le avrebbe aumentato di colpo gli anni. Scelta un po'curiosa e che non ha dato i suoi frutti) che ce la fa percepire come una petulante ed antipatica bambina che si imbratta il viso col trucco, si mette le scarpe coi tacchi e si infagotta coi vestiti della mamma per sembrare la propria mamma. E il risultato è pari pari quello: semplicemente grottesco. Perfino la Streisand in prima persona non ama questo film: non ha mai rilasciato dichiarazioni al riguardo a partire dal 1969 (come se lo volesse rimuovere e come se lo considerasse un errore di gioventù di cui vergognarsi). In più mi pare abbastanza sintomatico che, fin da allora, in qualsiasi concerto da lei tenuto in qualsiasi parte del mondo non abbia mai accennato nemmeno una delle canzoni del film. Nemmeno per sbaglio.

Però, ad esser sinceri, la scena in cui canta So Long, Dearie a Walter Matthau è divertente ed è sicuramente la migliore: dà sfoggio di quel talento e di quella verve che appena l'anno precedente le fruttò un premio Oscar. D'improvviso ci ricordiamo che proprio lei era stata la protagonista di Funny girl. Matthau, dal canto suo, sembra essere piuttosto svogliato e la voglia di archiviare questo film giusto perchè ci potrebbe essere il rischio di pagare una salatissima penale trasuda da ogni fotogramma. Girare questo film ed interpretare questo ruolo non gli piace. E si vede! E' forse l'unica volta, in tutta la sua carriera, in cui si trova a fare il cinico dai modi bruschi ed apparentemente dal cuore di pietra (sua grande specialità) senza riuscirci simpatico fin dalla prima scena (cosa che invece, di solito, accade). Come se non bastasse, credo che sia meglio sorvolare su quella sorta di borbottio che Matthau pensa di voler ascrivere alla categoria “canto”.

Nei ruoli di contorno si distingue (purtroppo non in positivo) Michael Crawford (il futuro Fantasma dell'Opera del musical di Andrews Lloyd Webber, destinato fortunatamente a mietere maggiori allori rispetto a questo Hello, Dolly!), che – fin dal suo primo apparire – ci sembra una sorta di bietolone tredicenne (in primo luogo, nel canto). Quasi una parodia dell'idiota dostoevskiano. Ovviamente un Dostoevskij da musical, decisamente poco riuscito. In più, il grandeur solitamente mostrato dai musical americani, in questo caso, diventa quasi arrogante elefantiasi cinematografica. Tutto è troppo grande e tutto è semplicemente...troppo (senza dopo tutto affascinare lo spettatore e senza divertirlo, a ben vedere).

Però il vero problema del film, più che nella prestazione degli attori (plausibili a sprazzi o talvolta per nulla), sta nella sceneggiatura piuttosto debole. Praticamente il film si dipana così: una buona scena d'apertura con la Streisand che canta Just Leave Everything To Me, poi si sonnecchia un po' fino ad un'elettrizzante Put On You Sunday Clothes (effettivamente l'unico vero battito d'ali del film, a parte i primi venti minuti della scena all'Harmonia Garden), la succitata scena dell'Harmonia Garden (però fino all'esecuzione della canzone Hello, Dolly!), poi si sbadiglia di nuovo fino alla grintosa So Long, Dearie e poi si dormicchia ancora fino al magniloquente finale (anche se ci si chiede: perchè Orazio dovrebbe sposare Dolly se fino a due minuti prima non la poteva soffrire? Magia dell'happy end). Senza dubbio la sceneggiatura più traballante del pur grandissimo Ernest Lehman.

Forse il fiasco commerciale a cui è andato incontro questo film (comunque premiato con 3 Oscar “tecnici” - indubbiamente meritati – alla scenografia, all'adattamento della partitura e al suono, ma senza raccoglierne nemmeno uno fra i 4 “artistici” a cui era candidato) è anche troppo ingeneroso, però non si può negare che Hello, Dolly! funziona solo se preso spizzichi e bocconi, per singole scene. Visto nella sua totalità tende un po' ad annoiare. Si può quasi dire che possa valere lo stesso discorso che solitamente si fa per un altro colossale disastro cinematografico quale I cancelli del cielo di Cimino.

Per ciò che riguarda la versione italiana del film non possiamo non fare i complimente ad una strepitosa Maria Pia Di Meo, la cui voce sarà indissolubilmente legata alla Streisand (caso più unico che raro,ma nessun'altra doppiatrice l'ha mai sostituita addirittura a partire da Funny girl, primo film della diva newyorkese) ed allo scorbutico Renato Turi, destinato talvolta a dover cedere il passo ad altri colleghi nel dar voce a Matthau, senza che però nessuno riuscisse minimamente a dissolvere il binomio indissolubile esistente fra il volto di Matthau e la sua voce (cosa di cui deve essersi ricordato perfino Benigni ne Il piccolo diavolo, che chiamò questo grande veterano del leggio per doppiarlo nuovamente dopo un po' di anni di assenza dal mondo del doppiaggio). Meno memorabili le voci secondarie, tranne forse la giovane Paila Pavese su Marianne McAndrew. Diciamo che da spettatori medi, parlando papale papale, ci conviene molto di più vederci solo le scene divertenti invece di starci a sorbire tutti i 146 minuti di proiezione, che risultano davvero tanti. E in certi momenti ci sembrano pure troppi.

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