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3/10

Operazione Crepes Suzettes regia di Blake Edwards

Musicale
recensione di Leonardo Romano

Prima Guerra Mondiale. La vedette inglese del music-hall, Lili Smith, è in realtà una spia tedesca che ha il compito di carpire dei segreti militari ad un bel pilota di aerei, il Maggiore Larrabee, e per raggiungere il suo scopo decide di farlo innamorare; ma Lili a sua volta se ne innamora. Quando però viene a scoprire che Larrabee ha una relazione con un'avvenente cantante, tale Suzette, lo fa incastrare come spia. In realtà, il Maggiore voleva lasciare Suzette per Lili e quest'ultima, avvedutasi dell'errore, per discolparlo rivela la sua vera identità. Lili è tra due fuochi: ricercata dalle autorità inglesi e dai servizi segreti tedeschi. Ma l'intervento degli aerei del Maggiore e la fine della guerra coroneranno il loro sogno d'amore.

Questo è un film che potremmo definire “assassino”.

Sì, perché in una botta sola distrusse la carriera hollywoodiana di Julie Andrews e di Blake Edwards per un buon decennio (fino al 1979 con 10, eccetto la parentesi poco esaltante de Il seme del tamarindo, non ebbero più l’occasione di fare un film insieme): la Andrews, reduce dal disastro di Un giorno…di prima mattina, si imbattè in questo (perfino peggiore) e gli studios le rescissero diversi contratti; mentre Edwardsregista anticonformista, ma pur sempre nell’ambito dello studio-system – non si trovò in sintonia con la poetica brutale e violenta della “New Hollywood” e sembrò quasi che sentisse fuori luogo con gli interi Anni ’70 (disagio ben esemplificato in 10). Fece saltare all’istante la testa di tutti coloro che furono invischiati nella produzione (responsabili, in primis, il megalomane Charles Bludhorn, despota della Paramount, ed il suo tirapiedi Robert Evans) e segnò definitivamente la morte del musical come genere cinematografico di successo.

La produzione fu alquanto travagliata e credo che sia sintomatico ricordare come la troupe dovette frettolosamente trasferirsi, nella primavera del 1968, da Parigi a Bruxelles per evitare di venir travolta dalle proteste del Maggio francese.

E poi, diciamolo francamente, è forse lontanamente concepibile un film dal ritmo così faticoso, goffo e affannoso, un film così decrepito (e lo sarebbe stato già anche negli Anni ’50!) in piena guerra nel Vietnam, dopo Woodstock e dopo le proteste studentesche? NO!

Julie Andrews era stanca di esser legata mani e piedi al clichè della bambinaia canterina, voleva rinnovare la sua immagine e il suo nuovo marito, Blake Edwards appunto, accettò di buon grado di darle una mano: confezionò una spy - story in cui la Andrews avrebbe dovuto vestire i panni di una Mata Hari sui generis.

Ma i due fecero i conti senza l’oste, ovvero i produttori della Paramount che imposero quasi manu militari ad Edwards di inzeppare il film di canzoni e di sequenze che non avevano nessun utilità ai fini dell’economia della vicenda se non quella di strizzare evidentemente l’occhio a Tutti insieme appassionatamente (è il caso della scena in cui la Andrews e Rock Hudson seguono sorridenti un gruppo di bimbi canterini - inutile e sdolcinata, che non poteva certo essere uscita volontariamente dalla mente di un regista intelligente come Edwards - o quella della panoramica area delle colline su cui Lili corre per andare incontro al Maggiore Larrabee).

Ma nel 1970 un film del genere, con l’aggravante di un budget stratosferico di 25 milioni di dollari (e con il conseguente magro bottino di soli 5 milioni di dollari incassati), non poteva non sembrare come qualcosa di abnorme, di assolutamente fuori moda e tremendamente datato. Un po’ come se qualcuno avesse deciso di proiettare Nascita di una nazione durante la Marcia su Washington. E infatti ci si chiede come sia stato possibile, dopo film come Il laureato, Easy rider, Gangster story e così via, dar vita ad un tale residuato bellico (e per di più con 136 minuti di ipertrofica e sfiancante proiezione).

Edwards tenta di mantenere il dovuto ironico ed ariostesco distacco dalla materia che dei produttori idioti gli impongono di narrare, ma un contratto di ferro e le loro brutali oltre che indebite intrusioni gli impongono di piegare la testa e adeguarsi senza discutere (anche se la scena di apertura in cui la Andrews canta la bella Whistling Away The Dark del dinamico duo ManciniMercer è davvero notevole e potrebbe far ben sperare per il prosieguo del film… Pia illusione!).

In più, il cast non gli è molto di aiuto.

Julie Andrews non si risparmia nel voler interpretare questo ruolo inconsueto e non si può negare che mostri anche una certa vivacità, ma la sceneggiatura non le dà l’opportunità di fare o dire qualcosa di realmente memorabile (numeri musicali a parte, che comunque sembrano davvero appiccicati con lo sputo alla trama). Come se non bastasse, nella versione italiana, si verifica per la prima volta il “divorzio” fra la diva inglese e la sua voce di fiducia, la bravissima Maria Pia Di Meo, maldestramente rimpiazzata da una mediocre Gabriella Genta (dirò al volo che questo è uno dei film più goffamente doppiati in tutta la storia del cinema, superato solo da American graffiti. Un lavoraccio abborracciato e di una qualità tecnica quasi amatoriale che, oltre a privare gli spettatori dei canonici accoppiamenti Andrews/Di Meo e Hudson/Rinaldi, li ammorba con una recitazione spaventosamente monocorde che non ne favorisce certo la visione).

Rock Hudson, dal canto suo, se ne sta imbambolato per tutta la durata del film con un’espressione ebete e dà vita forse ad una delle sue interpretazioni più brutte: forse anche perché è costretto a dar corpo ad un personaggio inutile (una sorta di bel quarto di bue che non sembra avere la benché minima attività neuronale tranne che per pilotare un aereo. Ci si chiede legittimamente che cosa ci trovi Lili in un tipo simile che non apre bocca se non per dire qualcosa che scorre via come acqua sul vetro). Jeremy Kemp (che interpreta il Colonnello Kurt Von Ruger) è un illustre Carneade del cinema, che sfodera un’espressioncina arcigna da Filippo Facci per 136 minuti e con questo pensa di aver svolto il suo compitino nell’ interpretare in modo adeguato l’ufficiale tedesco cattivo.

Giusto Gloria Paul, allora nota anche in Italia per essere stata una soubrette piuttosto nota nei varietà televisivi di quegli anni, sembra giusta per il ruolo della ballerina “bona” (e al riguardo non credo che le si possa rimproverare davvero nulla).

Questo è un film che al 90% sfodera personaggi debolucci o sbiaditi (anche le due figurine dei due investigatori francesi pasticcioni sembrano un grigio clone dell’Ispettore Clouseau), dialoghi mosci, scene assolutamente superflue, canzoni assolutamente fuori luogo (benchè molto orecchiabili - forse l’unico vero pregio del film – ma scarsamente plausibili dopo la rivoluzione e il soffio d’aria pura portato da “Hair”) e che annoia tanto. Davvero troppo.

Diversi anni dopo, Blake Edwards ebbe l’opportunità di presentare a Cannes il “director’s cut” di quest’ obbrobrio: scorciato a 109 minuti di proiezione (furono specialmente le parti musicali a farne le spese), il film fu accolto con grande favore dal pubblico.

Sarebbe successo anche nel 1970 se gli fosse stata data carta bianca dalla Paramount?

La Storia (anche quella del cinema) non si fa con i “se” o con i “ma”, però non lo si può escludere a priori (anche se non va dimenticato che dagli Anni ’90 in poi si è sempre più diffusa la “sindrome di Tarantino - Giusti”, ovvero del recupero dell’irrecuperabile; trovandoci però di fronte a un film radicalmente diverso da quello del ’70 il sospetto dovrebbe esser fugato).

Però sui nostri teleschermi circola la versione integrale (benché al momento della distribuzione in Italia fu tagliuzzata qualche coserellina; il che, comunque, non evitò affatto la catastrofe), quindi vi consiglio vivamente di saltare a piè pari quest’orrore dopo la bella sequenza di apertura.

Ma non tutto il male vien per nuocere. Memore di questa terrificante esperienza con l’idiozia dello studio – system e di tutto ciò che gli gravita attorno, Blake Edwards scrisse e diresse una delle sue migliori commedie, S.O.B., per mezzo della quale, grazie al suo humor al vetriolo, fece definitivamente i conti con quel nido di ipocrisia e di incompetenza che è Hollywood.

Dopo tutto solo dalle crisalidi possono nascere le farfalle. 

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