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7/10

Gigi regia di Vincente Minnelli

Musicale
recensione di Leonardo Romano

Gigi, ragazza parigina destinata a diventare una prostituta d'alto bordo (anche se controvoglia), gode della compagnia dell'annoiato giovane rampollo Gaston, che conduce una vita gaudente fra bei locali e belle donne che per non lo divertono quanto questa ragazzina. La nonna di Gigi e la zia Alice riescono alla fine a trasformarla in una ragazza raffinata, ma Gaston rimpiange la vecchia Gigi. Quindi, tutto finito? No. Vivere con la nuova Gigi vuol dir sempre vivere con la sua Gigi. E tutti vissero per sempre felici e contenti.  

 

Si potrebbe quasi dire che questo è un film nato dall'unione di una serie di seconde scelte. Sostanzialmente, “Gigi” nacque come rimpiazzo di “My Fair Lady”.

Louis B. Mayer, boss della MGM (lo si potrebbe definire quasi autocrate, se non fosse un po' un'esagerazione. O forse no...), era molto interessato all'acquisto dei diritti del suddetto musical per trasformarlo in un altro film musicale di successo, nello splendore dei 35 mm e con la consueta classe e dovizia di mezzi della “Freed Unit” (quell'unità dello studio guidata da Arthur Freed, che fu il mecenate capace di valorizzare i talenti di Gene Kelly, Fred Astaire, Vincente Minnelli, Judy Garland etc. e che ci ha regalato pietre miliari del musical americano quali “Cantando sotto la pioggia”, “Un americano a Parigi”, “Sette spose per sette fratelli”, “Spettacolo di varietà” e così via).

Lerner e Loewe, però, non erano intenzionati a vendere i diritti della loro creatura prediletta (li cedettero a Jack Warner solo qualche anno dopo e, nonostante il successo strepitoso ottenuto dal film di Cukor, non si ritennero soddisfatti dell'adattamento) ed alla fine trovarono un compromesso con Mayer: avrebbero scritto un musical nuovo di zecca appositamente per la MGM.

Bisogna dire, forse in modo un po' ingeneroso, che i due si spremettero poco le meningi.

Mutuando la storia dall'omonimo romanzo di Colette – anche se stemperandone un po' il caustico umorismo e sorvolando sugli aspetti più scabrosi della vicenda: ricordiamoci che siamo pur sempre in pieno “studio system” e nell'America puritana e morigerata degli Anni Cinquanta, entrambi dominati dal rigidissimo Codice Hays – paroliere e compositore fanno praticamente un calco di “My Fair Lady”: la storia di una vivace ragazza che da brutto anatroccolo diventa cigno e che, alla fine del canonico tira e molla sentimentale che dà suspense a qualsiasi musical, trova la felicità col suo amato, ricorda molto da vicino quella vissuta da Elisa Dolittle. E' difficile negarlo.

Questa premessa, però, non deve trarre in inganno.

La realizzazione del film è tutt'altro che banale o una stanca e fiacca copia carbone della più famosa sorella, allora ancora sul palcoscenico di Broadway.

Va detto che effettivamente lo spartito di “Gigi”è inferiore a quello fenomenale e sicuramente più vivace di “My Fair Lady” (comunque la canzone “Gigi” ottenne il suo bell' Oscar), però è decisamente raffinato (valorizzato anche dalla direzione di un grande musicista quale Andrè Previn, a cui fu affidata anche la partitura di – ma va? - di “My Fair Lady” nel film di Cukor) e le canzoni sono sicuramente gradevoli, orecchiabili e non certo da buttar via.

Benchè gli autori preferissero Audrey Hepburn nel ruolo della protagonista, in virtù anche del fatto che la Hepburn aveva interpretato Gigi in un adattamento teatrale del romanzo ad opera di Anita Loos, la parte andò a Leslie Caron che, con i suoi occhioni da cerbiatta, si era fatta notare qualche anno prima in “Un americano a Parigi”. Benchè la stessa Caron abbia sempre detto senza mezzi termini che la sua voce nel film fosse “semplicemente terribile” (Freed la fece doppiare nel canto a sua insaputa da Betty Wand che, qualche anno dopo, avrebbe doppiato Rita Moreno in “West Side Story”), la sua interpretazione vivace e spumeggiante (come del resto la grande raffinatezza ed eleganza mostrata una volta che Gigi ha concluso la sua metamorfosi in cigno) travalica sicuramente gli eventuali limiti vocali (di cui noi italiani poco ci curiamo, visto che la deliziosa Fiorella Betti le presta la sua giovanile e freschissima voce). Inoltre, non si può negare come la giovane e pimpante attrice sappia rendere con disinvoltura la sottile malizia di una ragazzina che sa perfettamente che il proprio destino (e la sua educazione è volta ad ottenere tenacemente tale obiettivo) è quello di diventare una prostituta d'alto bordo.

Maurice Chevalier si aggiudica il ruolo di Honorè (personaggio inventato di sana pianta appositamente per lui da Lerner e Loewe, che semplicemente lo adoravano) e, nonostante i suoi innegabili limiti come cantante (azzeccatissima la battuta di Woody Allen in “Io e Annie”:”Ma lo sai che quei ragazzi della Resistenza francese erano davvero eroici? Pensa a quanto dovevano sentir cantare Maurica Chevalier”, con ironico riferimento ai suoi poco chiari rapporti coi nazisti durante l'occupazione, cosa che gli ostacolò non poco la carriera nel dopoguerra), dà corpo ad una figura che gli risulta quanto mai congeniale: quella dell'attempato e sagace viveur, forse un po' superficiale ma che sa come gira il mondo. Tale è stata la sua maestria nel cesellare il personaggio che la Academy gli diede un Oscar speciale per la sua interpretazione (il canonico Oscar riparatore che Hollywood gli volle tributare per la parziale emarginazione subita a causa del suo passato collaborazionista).

Louis Jourdan, scelto in seconda battuta al posto di Dirk Bogarde (un po' come è successo a Leslie Caron, che si può in qualche modo considerare la “sostituta” della Hepburn),è convincente nella sua interpretazione del nobile rampollo perennemente annoiato da una vita fatta di lusso e belle donne (spiritoso ed azzeccato è il duetto con Chevalier, “It's a bore”). Certo, si sente perfettamente che non è un cantante professionista (Lerner e Loewe, durante la registrazione della canzone “Gigi”, lo paragonarono a Rex Harrison e lui, semplicemente infurato, abbandonò lo studio. Proprio torto, non ce l''aveva,eh...), ma si disimpegna con onore, pur senza strabiliarci. Bisogna anche aggiungere che il bravissimo e compianto Giuseppe Rinaldi gli dà una marcia in più sotto il profilo della recitazione, riuscendo ad esaltare ogni sfumatura che nell'originale era solo accennata in virtù di un prodigioso talento.

Menzione d'onore a Isabel Jeans, l'altera zia Alice prigioniera dei ricordi d'un favoloso e quasi fiabesco passato, è praticamente perfetta e non sbaglia una sola mossa (e la gigantesca Lydia Simoneschi le presta la sua splendida voce, volutamente affettata ed esageratamente pomposa).

Vincente Minnelli, premiato con l'unico premio Oscar della sua lunga e luminosa carriera (non ne avrebbe meritato qualcun'altro forse?), col contributo assolutamente determinante del costumista Cecil Beaton (già costumista a teatro e sullo schermo di...indovinate di quale musical? Per non essere ripetitivo, diciamo che ne è protagonista una fioraia dal pesante accento cockney), valorizza lo splendore delle scene ed è particolarmente abile nelle scene di massa e negli esterni (anche se non è proprio tutta farina del suo sacco, visto che alcune scene furono girate di nuovo dal mestierante di talento Charles Walters). In questo caso, Minnelli è un po' meno vivace e immaginifico del solito, però mostra la consueta classe e il solito tocco magico, anche se meno ispirato che in altre occasioni.

Però, da non sottovalutare (anzi, da lodare!) è la straordinaria arguzia con la quale sa rendere la pettegola vacuità dell'aristocrazia parigina di inizio Novecento, ritratta in modo quasi impressionista (non scordiamoci che è anche sua la regia di “Un americano a Parigi” col suo celeberrimo balletto ispirato ai pittori francesi di fine Ottocento), con le poche pennellate musicali dei cori attoniti dalla vita di Gaston che diventa un' opera d'arte sotto i loro occhi (esaltati anche dall'arrangiamento intenzionalmente bandistico del geniale Previn).

I maggiori punti di interesse del film risiedono al di fuori del pur piacevole spettacolo musicale e

della sua elegante messa in scena, nata sotto il segno del leone (quel lusso mai cafone che fu il vanto della MGM).

Lo sviluppo, l'evoluzione e le giustapposizioni fra i personaggi sono forse i veri punti di forza di questo musical.

Gigi, ad esempio, sa benissimo che dovrà diventare una cortigiana, ma l'idea non la alletta più di tanto: in lei è più vivo il desiderio di avere qualcuno da amare al suo fianco. In più la sua vivacità e la sua spensieratezza tipicamente adolescenziale mal si addicono ad una vera amante di sultani, re e uomini dal portafogli ampio e dall'albero genealogico illustre: questo causa un conflitto più o meno latente con la zia Alice e con la nonna (una simpatica Hermione Gingold), ma che affascina Gaston.

E proprio il rapporto Gaston-Gigi è un altro grande motivo di interesse.

Se il giovane aristocratico sonnecchia con le altre donne (che lui non esita a definire tutte uguali), con questa ragazzina dagli zigomi alti e dalla bocca che sembra un forno (ma che ha – cosa assai rara – l'argento vivo addosso ed una voglia di vivere non comune) sembra respirare una boccata d'aria pura. Infatti, quando Gigi (soprattutto per volere della nonna) sembra esser diventata come tutte le altre bamboline eleganti ma prive di nerbo, non riesce a contenere la rabbia. Basti pensare che, la prima volta in cui la vede vestita da signorA elegante, non può frenarsi dal chiedere bruscamente, quasi accusandola: “Dove hai messo il tuo vestito scozzese?”. Gaston però sa che preferisce vivere la sua vita con lei piuttosto che senza di lei: con una Gigi più elegante, ma che di sicuro non può aver perso la sua allegria (benchè mediata da maniere un po' meno rozze del solito).

In più – mi si perdoni l'accostamento un po' ardito – il rapporto Honorè-Gaston ricorda molto quello fra Virgilio e Dante (“Tu duca, tu signore e tu maestro”, come il sommo poeta apostrofa il grande mantovano nel II canto dell'Inferno): un rapporto maestro-allievo pieno di paterno affetto, benchè superficialmente connotato di frivolezza e superficialità.

Quindi “Gigi” nasce come una sorta di controfigura di “My Fair Lady”, ma questo non ne deve dimidiare (e di fatto non ne dimidia) il valore, anche se non si può negare che l'originale ha maggior brio, inventiva e un maggiore brio.Tuttavia il film di Minnelli scorre con notevole omogeneità senza che il fasto della cornice sovrasti le minutezze del quadro.

Sicuramente “Gigi”, rispetto al suo omologo della Warner e nonostante gli ottimi risultati al botteghino, è a tutt'oggi più una chicca per appassionati che un vivido ricordo della nostra memoria collettiva. Ma è indubbiamente un' “imitazione” di gran pregio e di ancor più squisita fattura.

Però si può dire che questo sia il canto del cigno del musical classico targato MGM.

In qualche modo si percepisce da parte della Freed Unit e di Minnelli una certa stanchezza ed una sorta di fisiologica crisi di ispirazione.

Il pubblico iniziava ad avvertire come una sensazione di sazietà per il genere.

Infatti i successivi musical dalla MGM si ritrovarono a dover fronteggiare con concorrenti più agguerriti (ad esempio, nel 1964, “Voglio essere amata in un letto d'ottone” si ritrovò a fare il vaso di coccio fra due vasi di ferro come “My Fair Lady” e “Mary Poppins”) o altri notevoli prodotti (come il malinconico, ma splendido “E' sempre bel tempo”) dovettero accontentarsi di entrare nel circuito dei drive-in accanto a morti viventi, grotteschi vampiri o alieni che sotto sotto si rivelavano comunisti.

Forse quella sensazione di minor magia che “Gigi” comunica rispetto a un “Cantando sotto la pioggia” sta proprio nell'amara consapevolezza che siamo alla vigilia del “basso impero” e che, da lì a 10 anni, quel cinema ingenuo (ma comunque di grandissima classe) sarebbe stato spazzato via da una nuova generazione di figure di cineasti più anticonformisti ed in linea con il clima di contestazione generale (anche se alcune furono solo poco più che meteore ed altri non furono altro che dei semplici cialtroni che cavalcarono la tigre della controcultura senza avere il benchè minimo talento).

E' stato un male che lo “studio system” (con annessi e connessi prodotti talvolta tremendamente conformisti) sia stato spazzato via dal clima di liberazione del '68?

NEMMENO PER IDEA!

Però un po' di nostalgico rimpianto per quei film di valore e di gran gusto che solo la vecchia Hollywood sapeva fare (e “Gigi” ne è un ottimo esempio) non può esser cancellato con un colpo di spugna solo per il furore ideologico delle nostre sacrosante convinzioni politiche.

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