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6/10

Assassinio sull Orient Express regia di Sidney Lumet

Thriller
recensione di Jacopo Rossi

Sul celebre e lussuoso Orient Express, in viaggio da Istanbul a Calais, viene compiuto un omicidio. Il detective Hercule Poirot, anche lui a bordo, indaga e scopre c’è un collegamento con un caso di rapimento avvenuto 5 anni prima…

Dai gialli di Agatha Christie è stata tratta una quantità sterminata di film, quasi sempre con risultati trascurabili: forse perché le regole razionali e geometriche su cui la regina del giallo elaborava i suoi whodunit portano inevitabilmente con se il rischio del ridicolo involontario, oltre a precludere quell’immedesimazione emozionale che dovrebbe essere virtù privilegiata del cinema. Non è un caso dunque che le riduzioni migliori (di Clair, di Wilder, di Lumet) siano quelle che più ne hanno accentuato la componente ironica e leggera, senza prendere troppo sul serio il razionalismo assoluto di cui sono paladini gli investigatori della Christie, Poirot in primis. Il film di Lumet è forse il più interessante, perché capace di dosare in maniera perfetta suspense, ironia e ricostruzione storica (l’ambientazione anni trenta) senza tradire lo spirito originario del romanzo.

Il soggetto di Assassinio sull’Orient Express presenta del resto una delle tematiche predilette dal regista sin dal suo esordio (La parola ai giurati), cioè il rapporto che si istaura fra personaggi chiusi in un ambiente claustrofobico. Trattandosi di un’opera su commissione siamo ovviamente ben distanti dal fervore politico e civile che anima le sue prove più incisive (basti pensare a Serpico, Quinto potere, L’uomo del banco dei pegni, oltre allo stesso film d’esordio), ma è pur significativo che – adeguandosi al punto di vista della ChristieLumet scelga nuovamente di schierarsi su una posizione anomala e anticonformista: gli assassini alla fine saranno “assolti” da Poirot e non denunciati alla polizia, perché il loro omicidio altro non è stato che una superiore forma di giustizia.

I fasti della super-produzione emergono dall’accuratezza con cui è stata ricostruita l’ambientazione, dalle raffinatezze del comparto tecnico (la musica di Richard Rodney Bennett, la fotografia di Geoffrey Unsworth) e soprattutto da un cast che, per quantità ed eccezionalità dei divi coinvolti, non ha probabilmente eguali nella storia del cinema, se si escludono certe commedie degli anni trenta o (fatti i debiti distinguo…) gli Ocean’s di Steven Soderbergh

Forti della propria consumata abilità scenica, Lauren Bacall, Ingrid Bergman, Sean Connery, Jacqueline Bisset, Vanessa Redgrave, Anthony Perkins, Martin Balsam, Wendy Hiller e John Gielgud riescono nel compito di rendere memorabili i propri personaggi – alcuni di presenza fugace, al limite del cameo – con pochi gesti e un paio di battute. L’istrionica Ingrid Bergman è stata premiata con l’Oscar, ma la gara di bravura viene probabilmente vinta da Gielgud, capace di estrarre sottigliezze inaspettate da un personaggio a rischio di macchietta come quello del maggiordomo. La vittima è interpretata da un grande villain cinematografico come Richard Widmark, mentre il detective Poirot trova in un irriconoscibile Albert Finney un interprete che, senza celare le “asprezze” originarie del personaggio (snobismo, arroganza), le illumina con una vena di bizzarra ironia.

L’ironia, del resto, è elemento fondamentale di questo accurato e leggiadro divertissement, condotto da Lumet con sicura padronanza del ritmo (né troppo lento né troppo veloce) e ottimo senso della suspense. E se freddezza e accademismo sono conseguenze inevitabili di una produzione tanto fastosa e iper-levigata, la parte finale riesce comunque a regalare brividi di autentica emozione: in particolare nel flash-back dell’omicidio, compiuto come si trattasse di un rito purificatorio (ogni personaggio sferra una singola coltellata, uno dopo l’altro, ognuno secondo la propria motivazione personale) e seguito da un inquietante e liberatorio brindisi fra gli assassini-giustizieri.

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