R Recensione

7/10

Pecore in erba regia di Alberto Caviglia

Mockumentary
recensione di Giulia Betti

Luglio 2006. Leonardo Zuliani è scomparso. Da Trastevere la clamorosa notizia diventa vera e propria emergenza nazionale mentre un innumerevole gruppo di seguaci si accalca davanti alla casa del giovane attivista. La mamma è disperata, il quartiere paralizzato. Alla televisione ogni canale parla di lui, tutte le autorità esprimono la loro solidarietà alla famiglia. Molti non vogliono crederci, forse sperano sia un'altra delle sue trovate. Genio della comunicazione, fumettista di successo, stilista visionario, scrittore di grido, attivista dei diritti civili: ma chi è veramente Leonardo?

Che i Media siano dei gran furboni manipolatori, con lunghi artigli tentacolari e denti sudici di sangue incrostato non è gran novità, lo si evidenzia anche facendo una rapida analisi delle recensioni fatte da altri autori al lungometraggio di esordio del regista ebreo Alberto Caviglia, questo Pecore in erba, che a detta di tutti pare essere un succulento porridge di genialità, ma che ad una meno fanatica osservazione non si dimostra come la più riuscita fra le potenziali brillanti intuizioni di questa stagione.

Più lo si definisce acutissimo e più lo si definisce acutissimo, che detta così pare essere uno dei soliti proverbi-mutilati alla Paolo Bitta, ma che in realtà vuole esprimere la piattezza ingiustificata dell’opinione pubblica e della critica sua rappresentante, portatrice sana del brutto vizio del ripetere il già dettò, e di farlo senza troppa originalità d’aggiunta.

Tout le monde” stravede per questo mockumentary che ha l’arguzia di porsi come obbiettivo quello di falcidiare omofiobia e razzismo utilizzando l’arrotata lama del paradosso, ergendo a primo attore della vicenda un parzialmente compreso antisemita dalla nascita, Leonardo Zuliani (che voglia essere un omaggio al camaleontico Leonard Zelig dell’eccelso, questo si, falso documentario di un collega, anche lui ebreo, di Caviglia...un certo Woody Allen?). Forse si, forse no, io di certo non lo so. Ciò che so però, è che non è da escludere che tra i bersagli nel mirino di Caviglia, in passato collaboratore di Ferzan Özpetek e quindi già cinematografaro patentato, ci siano stati anche il potere mediatico, e il fenomeno “Elephant Man” delle masse.

Se così fosse, sono costretta a ribadire che le buone intenzioni non sempre si materializzano in buone attuazioni.

Partendo dal primo esplicito obbiettivo del regista, quindi “difendere paradossalmente l’antisemitismo, per stimolare il pubblico a riflettere su quanto sia in realtà importante tutelare e proteggere la minoranza ebraica (e tutte le altre), qui in Italia come altrove” possiamo sì confermare il nostro apprezzamento per la nobilissima causa, ma ci viene anche da sorridere nel sentirla etichettare come geniale quando l’ottanta percento dei comici americani fa già da parecchi anni autosatira ed autoironia sul loro essere ebrei e con intuizioni ben più sottili e ricercate, e probabilmente anche più efficaci perché incredibilmente immediate. Ma l’Italia non è l’America, Caviglia non è ancora Allen o Lewis, e gli ebrei italiani probabilmente sono anche meno simpatici e più severi nei confronti delle loro tradizioni. Altro ambito, questo, di cui non posso definirmi un’esperta.

Procedendo con ordine dunque, lasciamo il primo bersaglio, nel quale la freccia scoccata da Caviglia raggiunge con un discreto successo la seconda circonferenza partendo dal centro. Un distinto inizio che ahimè prosegue con una piccola discesa. Il secondo tentativo infatti risente di una mira distratta e forse una mancata energia, il cerchio raggiunto sta volta è tra i blu, siamo sempre più lontani dal nucleo giallognolo.

Quello fallimentare sopracitato, era il presunto bersaglio del potere mediatico. Ora, per farvi capire l’errore enorme commesso dal regista, utilizzerò una metafora molto semplice. Partiamo dal presupposto che Caviglia sia un eccellente chef, e che abbia al suo servizio un’altrettanto eccelsa squadra di cuochi, e naturalmente una credenza ricolma di pentolame d’eccezione, spezie di qualità e ricette da brevetto. Siamo in autunno e che decide di fare lo chef? Di cucinarmi un succulento risotto...con gli asparagi!

Proprio come quella degli asparagi, che sono primaverili, la scelta di Caviglia di portare sul grande schermo, ora nel 2015, una potenzialmente brillante satira tale Pecore in Erba, utilizzando un ingrediente palesemente fuori stagione come i media televisivi, appare come una scelta controproducente perché totalmente insoddisfacente per i nostri palati attenti da migranti o nativi digitali.

Dal 2006, anno in cui è ambientato il film, ad oggi, ci sono stati indiscutibili cambiamenti e sviluppi dal fronte mediatico. Voler portare avanti un’accusa con buone speranze di riuscita, come quella di Caviglia, e farlo sprecando la possibilità di importunare gli spettatori schiaffando sul grande schermo quella dittatura da social network della quale sono succubi, e scegliendo altresì di limitarsi a mostrare l’influenza che l’opinione pubblica riceve assorbendo il chiacchiericcio superficiale nei salotti di Mara Venier è a dir poco ridicolo ed ingiustificato.

Il grande premio rimane appeso in cima al tendone osservato e bramato da tutti mentre l’orsacchiottino di consolazione si fa sempre più vicino per il povero Caviglia. Ancora un colpo per il neoregista, sta volta ci si cala nel citazionismo cinematografico parlando del fenomeno Elephant Man.

Il fenomeno lynchiano delle masse, raccontatoci per immagini da Caviglia, rimane ancora oggi incredibilmente attuale, e per questo motivo non si può che giudicare favorevolmente l’accusa da questi portata non solo al fenomeno stesso, ma anche ai cosidetti fautori che lo pongono in essere con costanza e rispondendo ad una tradizione di certo non solo italiana.

Per fenomeno Elephant Man delle masse si intende l’atteggiamento comune di detestare un individuo, puntargli contro il dito, massacrarlo di insulti e malvagità e poi d’improvviso, travolti da un insolito destino, persuasi della positiva unicità di quest’essere evidenziata dai media, ecco che ci si trasforma nei più devoti sostenitori della precedente vittima, e allora lo si innalza a divo digitale (oggi), a personaggio televisivo, a eroe nazionale e quant’altro. Ma non crediate che si concluda così lietamente il processo. La componente sfiziosa e succulenta del fenomeno è proprio quella porzione di malvagità viziata costantemente presente nell’opinione pubblica che detiene vita natural durante il potere di gettare nella fossa dei leoni il succube personaggio con un semplice pollice verso o con un like di facebook.

Per quanto mi ritrovi a sottolineare la grande e sentita mancanza del ventaglio dei social nella messa in scena di Caviglia di questo fenomeno, non posso però negare che la sua descrizione così misurata e peculiare di quello che è oramai un costume dei tempi moderni sia incredibilmente energica, intuitiva e potente. Bersaglio centrato! Finalmente.

Caviglia può dunque star sereno e raccogliere i suoi frutti, che non saranno certamente il grande premio assai ambito, ma un riconoscimento ugualmente bello seppur minore, il sincero augurio di far di queste sue idee stravaganti ma puntuali, un lavoro impeccabilmente degno di nota.

 

 

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