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7/10

Race - Il colore della vittoria regia di Stephen Hopkins

Biografico
recensione di Giulia Betti

Negli anni '30 l'afroamericano Jesse Owens diventò un campione di atletica, vincendo quattro medaglie d'oro ai Giochi Olimpiadi del 1936, tenutisi a Berlino, diventato un simbolo della lotta al razzismo sfidando le ideologiche razziali imposte da Adolf Hitler.

Ieri come oggi, se ne faceva una questione di “race” di razza, una migliore delle altre, una inferiore a tutte. RACE - Il colore della vittoria, è l’opera che il produttore Jean-Charles Lévy, ed il regista Stephen Hopkins, hanno dedicato alla memoria dell’eroe mondiale, leggenda dell’atletica leggera, Jesse Owens, l’uomo che scrisse la storia dello sport, l’uomo che sfidò la visione nazista della supremazia ariana.

Primo film sull’icona mondiale quattro volte oro olimpico ai giochi di Berlino 1936, il film di Hopkins, racconta gli anni più intensi della vita dell’atleta, dall’arrivo all’Ohio State University appena diciannovenne, ai successi di appena due anni dopo sul palcoscenico internazionale delle Olimpiadi. Desiderato ardentemente dal produttore Luc Dayan che aveva già prodotto e sviluppato il premiato corto Tribute to Jesse Owens and Carl Lewis, RACE non è solamente un film sullo sport, ma è prima di ciò un film dal carattere socio politico non trascurabile. Non tutti sanno infatti che per un pelo i Giochi Olimpici rischiavano di saltare, o quantomeno di non ospitare fra le squadre, quella americana. La partecipazione ai Giochi Olimpici avrebbe appoggiato, secondo il presidente del Comitato Olimpico Americano Jeremia Mahoney, la strumentalizzazione degli stessi ad opera dei tedeschi. Pochi conoscono le sfumature della competizione ed il profondo rispetto che legò Owens a uno dei suoi più celebri rivali, l’atleta tedesco Carl “Luz” Long, grande speranza ariana di Hitler, che sarà punito dai nazisti per aver dimostrato e palesato affetto e stima per il collega nero. Ignota a molti pure la dinamica relazionale tra la regista Leni Riefenstahl e il ministro per la propaganda del regime, Joseph Goebbels, il quale (questo purtroppo non ci è mostrato nel film), mente perversa e pericolosa, fu molto innamorato della giovane Leni, arrivando ad essere per ella un’ossessione temibile e poi un nemico crudele e vendicativo a seguito del drammatico rifiuto ricevuto. Dimenticato e commovente, anche il fatto che i successi di Owens, per decenni non sono mai stati riconosciuti da nessun presidente americano, fino a quando nel 1979 è stato insignito del Living Legend Award alla Casa Bianca, e nel 1990, è arrivata la medaglia d’Oro del congresso, oramai postuma.

Ambientazione del film, oltre la Germania nazista delle olimpiadi è l’America della post-depressione, periodo storico rappresentato dal direttore della fotografia Peter Levy (storico collaboratore di Hopkins) riducendo al minimo la luce degli interni poiché la gente all’epoca cercava di risparmiare il più possibile anche sull’elettricità, privilegiando i mezzi toni, tingendo l’inquadratura con tonalità più intense e scure. Per le scene in cui Owens corre in Germania invece, Levy ha cercato ombre più marcate ed uno stile più grafico, traendo alcune scene dei Giochi Olimpici proprio dal capolavoro di Leni Riefenstahl: Olympia, documentario con il quale la regista tedesca aveva il desiderio di realizzare qualche cosa di nuovo, sperimentando soluzioni tecniche originali. Hans Ertl (purtroppo questo e gli altri aneddoti non ci verranno mostrati nel film), collaboratore di Leni, aveva costruito una macchina da presa automatica che consentiva di seguire gli scattisti sulla pista dei cento metri, ma un giudice di gara, tuttavia, vietò di utilizzarla. Per filmare lo stadio da una prospettiva aerea, la Riefenstahl, si servì di un pallone. Ogni mattina, dopo aver legato ad esso una piccola macchina da presa, lo liberava verso il cielo, e grazie ad un inserzione sul giornale nel quale prometteva una ricompensa a chi riportava la cinepresa, riuscì ogni volta a recuperare l’apparecchio ed il materiale filmato. Walter Frentz, suo collaboratore, costruì un cestino di corda e vi alloggiò una minuscola camera, chiedendo ai maratoneti di legarselo al petto durante gli allenamenti. Per catturare tutti gli eventi dell’apertura dei giochi olimpici (ingresso delle squadre nazionali, l’arrivo del teodoforo, l’accensione del fuoco olimpico nel braciere, il breve discorso di Hitler, le colombe che si alzarono in cielo, l’inno composto da Richard Strauss) la regista utilizzò sessanta operatori, ma le SS non le resero facile l’impresa, smontando, su ordine del ministro Goebbels, alcune macchine da presa posizionate sul palco. A salvarla fu il feldmaresciallo Goring.

“Con quattro medaglie d’oro e due record mondiali - racconta la Riefenstahl nella sua autobiografia (che forse sarebbe dovuta essere consultata dagli sceneggiatori Anna Waterhouse e Joe Shrapnel, per la scrittura di RACE) - Jesse Owens fu la grande rivelazione di quei giochi olimpici. La leggenda vuole che Hitler si sia rifiutato di stringere la mano al campione per motivi razziali (vicenda raccontata nel film in una scena fondamentale), ma non fu questo che accadde veramente (i fatti sono peraltro riportati nel rapporto americano sui giochi olimpici, altro testo che forse avrebbero dovuto consultare). Il primo giorno di gara, Hitler, accolse i vincitori nella tribuna d’onore, ma il presidente del comitato olimpico francese chiese la sospensione di questo cerimoniale non previsto dal protocollo.”

Nonostante molte scene di Race - Il colore della vittoria, siano stare girate a Montréal, e a Berlino all’Olympiastadion, riprese quest’ultime che conferiscono al film un’unicità che non sarebbe stato possibile ottenere con la sola ricostruzione sul set, Hopkins ha deciso di fare uso anche di elementi ricreati al computer, come alcune parti di Manhattan, l’anfiteatro di Los Angeles, e le bandiere delle Università Americane.

Per ciò che concerne gli interpreti, decido di spendere più tempo concentrandomi su Jason Sudeikis, nel ruolo di Larry Snyder, l’impareggiabile coach ed amico sincero di Owens, piuttosto che sull’attore protagonista Stephan James, già riconosciuto come giovane rivelazione vestendo i panni di John Lewis nel film di Ava Du Verney: Selma - La strada per la libertà. Abbiamo sempre trovato Sudeikis infatti, in commedie di successo per esempio le fortunate Come ti spaccio la famiglia e Come ammazzare il capo e vivere felici, e questo ruolo così intenso e drammatico mette in luce ancora una volta una ineguagliabile qualità degli attori americani: la poliedricità. Il personaggio di Snyder è il cosidetto Mentore, archetipo per eccellenza. Colui che grazie alla propria esperienza saprà fare dell’Eroe, Owens, un vincente. Lo stesso Snyder aveva perso una grande opportunità, quella di partecipare ai Giochi Olimpici di Parigi del 1924 con la squadra americana. Il rapporto tra Jesse e Larry incarna la lotta contro il razzismo attraverso l’integrazione.

Il mio giudizio su questo film è, dal punto di vista estetico, estremamente positivo. Nei riguardi del contenuto invece non posso che giudicarlo riduttivo e fiabesco. Come sempre fanno, anche questa volta gli americani, si sono lasciati attrarre dalla tentazione di portare acqua al proprio mulino gonfiando certe verità, ed omettendone altre; la cosa tristemente vera, è che questa volta non ce n’era neppure bisogno, perché la storia di Owens da sé dava lustro ad una certa qualità nel nuovo mondo, la democrazia. È molto patetico che nello scontro America vs. Germania, il film di Hopkins dipinga la prima come immacolata protettrice dell’uguaglianza razziale e la seconda come ciò che al tempo effettivamente era, un’infezione mortale ai pari diritti. La ricordiamo l’America di Selma? Era il 1964 (trent’anni dopo le Olimpiadi di Berlino) e ancora al sud i neri erano pesantemente minacciati dall’odio razzista dell’uomo bianco, che non si faceva troppi scrupoli a sfracellare crani negroidi, ad ammazzare bambine, a stuprare giovani donne afroamericane.

Il messaggio del film è “Se gli americani non fossero andati a Berlino, Hitler avrebbe avuto ciò che voleva, ovvero dimostrare che la razza ariana era quella dominante, ma la Storia paradossalmente ha raccontato un esito differente”. In quest’unica frase, ci sono purtroppo due errori. Il primo ci viene confessato sempre attraverso le memorie della Riefenstahl, la quale racconta che ad Hitler non importava molto delle olimpiadi. Riporto qui le parole che la regista attribuisce al feroce dittatore nel suo libro: “Io sarò felice quando tutto sarà finito, preferirei non dovervi neppure assistere”. Hitler era ben consapevole della vittoria dei neri americani, non era uno sciocco, aveva avuto modo di riflettere molto in questi riguardi ed aveva confessato all’amica Leni, la sua afflizione. Il secondo errore riguarda il fatto che queste olimpiadi (secondo la tesi del film) “avrebbero” messo in luce la non superiorità della razza ariana. Ora, non fraintendetemi, siamo assolutamente tutti d’accordo sul fatto che non ci sia una razza superiore ad un’altra in questo mondo, ma è indiscutibile in quanto Storia, che in quell’edizione dei Giochi Olimpici, la Germania fu il paese che conseguì il maggior numero di vittorie, conquistando trentatré medaglie d’oro, ventisei d’argento e trenta di bronzo, un eccellenza che non avrebbe più raggiunto, quindi perché dipingere un Hitler uscito da quest’evento con la coda fra le gambe, quando in realtà ne fu comunque il vincitore?

Io continuo a sostenere che il vero nemico di Owens non fu nient’affatto la Germania depravata di Hitler e Goebbels, quanto l’America di Roosevelt, che come possiamo vedere in una delle scene conclusive del film, continuò a trattare il giovane eroe olimpionico nazionale come un animale a cui è vietato l’accesso nei bei posti eleganti riservati ai “padroncini” bianchi.

 

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andrea123 alle 11:34 del 2 aprile 2020 ha scritto:

Ci troviamo alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Jesse Owens, atleta afro-americano, è il primo a trionfare con 4 medaglie d’oro davanti agli occhi increduli e sbigottiti di Adolf Hitler. Partito accompagnato solo dal suo talento per la corsa dall’università americana dell’Ohio, grazie all’allenatore Larry Snyder, Jesse inizia il duro allenamento in pista contro il tempo e negli spogliatoi con le continue tensioni razziali, per inseguire il suo sogno. Il regista non si è soffermato esclusivamente sulla gara (“race” come scritto nel titolo), o sul “colore della vittoria”, ma su tutto ciò che avviene prima di essa.

Egli si concentra sui 3 anni che hanno preceduto le vittorie, per contestualizzare al meglio il clima di tensione e paura respirato dai neri in America ed Europa in quegli anni. Il film gioca infatti su questo duplice contesto: da una parte il fronte sportivo, sul sapore della vittoria, della vittoria sudata e non regalata, una vittoria frutto di sconfitte; dall’altra l’elemento storico che va a contestualizzare la biografia, a dare un’idea dell’esaltazione della razza ariana come pretesto per il terrore nazista alla vigilia della seconda guerra mondiale. E’ qui però che voglio introdurre una leggera critica. In certi momenti, non si riesce a capire cosa il regista volesse rendere oggetto centrale di discussione: l’aspetto storico o l’aspetto sportivo. Sembra quasi che il regista non sapesse quale identità dare al film. Non si riesce a capire quindi se ha un’impronta maggiormente drammatica o un’impronta sportiva.

Secondo il mio gusto personale, devo dire che la parte storica ha la meglio su quella sportiva, a cui comunque non manca nulla.

Personalmente ho trovato interessante una Germania che si presenta all’occhio dello spettatore, del turista un Reich pacifico, mentre invece sta imbastendo i preparativi più lugubri e disumani anche attraverso il boicottaggio più assoluto.

Significativo è quando l’americano arrivato a Berlino rimane esterrefatto dalle perquisizioni, dai maltrattamenti e dalle deportazioni, quando al contrario il sergente che lo aveva raggiunto all’aeroporto era abituato a convivere in questo regime, appoggiandolo.

Una Germania che si mostra illustre e celebre con un immenso stadio olimpico e trasmettendo le gare in diretta televisiva, quando però censurano e filtrano le immagini: per esempio quando l’atleta tedesco Luz Long mostra il suo spirito sportivo di fronte all’inconfutabile bravura dell’atleta afro-americano; oppure il tentativo di boicottaggio quando di proposito viene fatto in modo che le scarpe che l’allenatore aver fatto spedire dall’Inghilterra per Jesse non arrivassero mai.

Poi per quanto riguarda l’aspetto sportivo, mi è piaciuto il messaggio “no racism” di Owens che dice: “quando corro non esistono persone con pelle, lingua o quantità di soldi diversa, esistono solo i veloci e i lenti”, che sottolinea lo Sport come tecnica per unire imparando l’uno dall’altro; non come arma di propaganda e discriminazione per ostentare la potenza di una nazione.

Un personaggio che mi ha colpito e affascinato, senza citare Jesse Owens in quanto risulterei banale, è senza dubbio il padre. Un uomo, a mio avviso, che cambia nel tempo, con il passare dei minuti, delle scene. Nonostante non sia un personaggio principale e non abbia un ricco copione, l’ho trovato interessante e mi sarebbe piaciuto approfondirlo maggiormente.

Inizialmente nel film, durante il saluto alla partenza di Jesse, egli non fa parlare le parole, ma lo sguardo. Il volto triste e allo stesso modo dimesso me lo ha presentato come un personaggio sottomesso, arreso alle distinzioni razziali, un uomo che non vede una fine per tutto questo, che non vede la luce infondo al tunnel.

Ma verso la fine del film, lo vediamo raggiungere il culmine della sua metamorfosi; l’associazione per la parità dei diritti consiglia a Jesse di non andare alle olimpiadi di Berlino, di non andare dai tedeschi facendo finta che tutto stia andando bene, negando l’effettivo problema. E’ qui che il padre si impone per la prima volta. Egli interviene, quasi imponendosi consigliando al figlio di fare ciò che più desiderava ed esponendo il suo desiderio riguardo alla partecipazione di Jesse alle olimpiadi.

Beh, se consiglierei il film? Certo che si! Lo consiglio anche a coloro che non praticano uno sport come l’atletica leggera, anche solo per arricchire il proprio patrimonio conoscitivo.

Volevo concludere la recensione con una citazione di Federico Buffa in un episodio della nota serie “Federico Buffa racconta”, in cui dice: “una storia che non finisce mai, quella di Jesse Owens, una storia di enorme attualità”. La frase ci può far pensare e farci fare un esame di coscienza non solo sulla situazione sportiva odierna, ma anche sulle discriminazioni di qualsiasi genere, non necessariamente di razza, che vivono tra di noi e con cui conviviamo. Quelle del 36 si potrebbero definire “Le Vere Olimpiadi” della storia dello sport, quelle che separano quello che è successo prima, da quello che è successo dopo.