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8/10

Stop The Pounding Heart regia di Roberto Minervini

Drammatico
recensione di Giulia Bramati

 

Sara vive con la sua famiglia in una fattoria del Texas e non conosce realtà al di fuori di quella pastorale. L’incontro con Colby, un giovane cow boy, provoca in lei una serie di dubbi, che la portano a rivalutare il suo modus vivendi.

 

Sometimes we feel so alone and so confused dice la madre di Sara, la giovane protagonista del film/documentario “Stop the pounding heart” di Roberto Minervini. Presentato fuori concorso alla 66a edizione del Festival di Cannes, il film si pone il difficile obiettivo di mostrare la vita di una famiglia di allevatori del Texas, fortemente legata ai valori del cristianesimo e alla dedizione al lavoro pastorale.

Tra i dodici figli che fanno parte di questa famiglia, il regista sceglie di focalizzare la sua attenzione su Sara, la figlia maggiore. Educata e istruita dai genitori, come il resto dei suoi fratelli, la ragazzina non conosce alternativa alla dura vita pastorale. Oltre ad aiutare il padre nei pesanti lavori di allevatore - dalla mungitura delle capre alla manutenzione dei recinti - si occupa anche dei fratelli, la sua unica compagnia.

È difficile immaginare che una situazione tanto anacronistica abbia luogo negli Stati Uniti. Raramente, infatti, le produzioni statunitensi hanno raccontato le realtà delle loro province. Ed è servita l'immaginazione di un italiano per valorizzare le potenzialità di una realtà apparentemente insignificante, che si è invece rivelata profonda e appassionante.

Sara non conosce alcuna alternativa alla vita che si trova a vivere. Abituata dalla famiglia ad una bigotta visione della società, filtrata attraverso gli insegnamenti del cristianesimo, la ragazza inizia a porsi degli interrogativi nel momento in cui conosce Colby, un giovane cow boy che le mostra che la vita si estende oltre i confini della sua fattoria.

Sara conquista la consapevolezza di essere una persona sola e forse inizia a capire di non condividere appieno i principi che la sua famiglia le ha insegnato. La crisi d'identità viene raccontata attraverso gli sguardi silenziosi della protagonista, quasi intimidita da questi nuovi pensieri che non riesce a tradurre in parole. È la madre a provare a spiegare i motivi delle lacrime della giovane figlia. La donna, preoccupata che ad affliggerla siano dubbi religiosi, la rassicura rivelandole che anche la fede è un work in progress.

Ma il perpetuo silenzio di Sara a fronte di questa conversazione convince lo spettatore che la sua crisi non si limita a questo, ma coinvolge ambiti ben maggiori.

La macchina da presa segue con delicatezza i movimenti di Sara, a cui è lasciato ampio spazio all'interno delle inquadrature. Il direttore della fotografia Diego Romero compie un'operazione importante all'interno della pellicola, scegliendo di mettere a fuoco il volto di Sara a discapito di altri personaggi che occupano insieme a lei lo spazio dell'inquadratura. Sono proprio questi espedienti a far comprendere allo spettatore i pensieri della protagonista, che inizia a sentirsi stretta in quella dimensione sociale.

Minervini sceglie inoltre di non utilizzare alcun suono extradiegetico, lasciando alla natura il compito di immergere lo spettatore in questa realtà tanto insolita.

Un'ultima considerazione va affrontata a proposito di una scena alquanto difficile. Il regista è riuscito, infatti, a riprendere un parto realizzato in casa con estrema naturalezza. Anche in questa situazione, per un momento, il focus della macchina da presa privilegia il volto di Sara.

La positiva accoglienza di questa pellicola a Cannes dovrebbe spingere la produzione cinematografica italiana a incentivare il documentario - e film a metà tra fiction e documentario - sempre più presente all’interno della cinematografia italiana.

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